laR+ L’intervista

‘Recitare mi basta, ma è bella la regia’

L’esperienza spoletina da regista in teatro aggiorna i piani di vita dell’attore italiano Luca Marinelli, tra i giurati del Concorso Internazionale

Luca Marinelli
(Ti-Press)
14 agosto 2024
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Luca Marinelli, che incontriamo a Locarno77 in qualità di giurato per il Concorso Internazionale, si è fatto conoscere anche da un pubblico meno attento con ‘Non essere cattivo’ – il canto del cigno di Claudio Caligari, un regista imperdonabilmente trascurato dal mondo del cinema italiano – in cui ha recitato al fianco di Alessandro Borghi (foto a sinistra). La coppia si è poi riunita sul set di ‘Le otto montagne’, riuscendo ancora una volta a creare una piccola magia, in uno di quei rari casi in cui la trasposizione cinematografica risulta decisamente più convincente rispetto al romanzo. Qualche anno prima, Marinelli aveva già dato vita a un altro personaggio tratto da un’opera letteraria vincitrice del Premio Strega, nel film ‘La solitudine dei numeri primi’ e la letteratura rimane protagonista nel percorso di Marinelli, che incarna personaggi tratti da altri romanzi iconici della letteratura italiana e americana, come ‘Una questione privata’ di Beppe Fenoglio, diretto dai fratelli Taviani, e ‘Martin Eden’ di Jack London, sotto la regia di Pietro Marcello.

Lo Zingaro

Lontano dagli scaffali, dai libri e oltre i confini nazionali, Marinelli ha dimostrato la sua versatilità partecipando a produzioni internazionali, recitando al fianco di Charlize Theron e sotto la direzione di Danny Boyle, regista di ‘Trainspotting’. Ma è nella sua città, che ha interpretato uno dei suoi personaggi più memorabili: lo Zingaro in ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, ambientato in una Roma immaginata da Gabriele Mainetti e popolata da supereroi impossibili da concepire in un universo Marvel, Dc o semplicemente al di fuori del Grande Raccordo Anulare.

Marinelli ha poi affrontato una figura mastodontica come quella di Fabrizio De André e ora si misura con uno dei personaggi storici più difficili in assoluto nella serie ‘M. Il figlio del secolo’, che sta per essere presentata a Venezia, dove interpreta Benito Mussolini sotto la direzione di Joe Wright, regista inglese che aveva già trasformato un altro mostro sacro del cinema, Gary Oldman, nella versione premiata con un Oscar di Churchill. Insomma, Marinelli è un attore in stato di grazia che, quando sarà trascorso il tempo necessario per valutare la sua carriera con il giusto distacco, sarà canonizzato tra i più importanti attori italiani. Del resto, quanti potranno mai vantare di essersi trasformati da partigiano a dittatore? Da quel poco che abbiamo visto del suo Mussolini, sembra che Marinelli sia riuscito, come già fatto con il cantautore genovese, a creare un personaggio terzo che non solo rappresenta e rispetta quello reale, ma che al contempo ne sposta la percezione e le sfumature, proponendo una versione, che, pur mantenendo intatta l’essenza dell’uomo, si discosta dalla percezione consolidata che abbiamo maturato nel corso degli anni. È peculiare, a tal proposito, come abbia ritratto Jack London sotto la guida di un regista italiano e Mussolini con un regista anglosassone.

Provini

«Sì, creo comunque sempre un personaggio. Che rappresenti una figura realmente esistita o sia di pura finzione, ne creo comunque uno mio. Li tratto come se arrivassero tutti dalla finzione». Con tutti i suoi personaggi, Marinelli si mette in gioco offrendo interpretazioni ricche di vulnerabilità. Recita a pori aperti, con una trasparenza che lascia emergere la sua umanità. Si percepisce sempre un artista disposto a tuffarsi senza rete, e con molta umiltà ammette: «Mentre lo faccio, non mi preoccupo mai del risultato finale... al limite può essere un pensiero prima o dopo le riprese, ma di solito il film ha un suo fuoco e una fiducia con il regista che mi permette di osare».

Marinelli aggiunge anche: «Capita ancora di fare i provini e ne sono contento; lo farei per ogni film. Qualche volta, quando mi viene offerto un film sulla fiducia, preferirei comunque fare un provino. È un momento sempre molto bello per capirsi con il/la regista e per capire se veramente io riesco a funzionare in quell’abito...». Abito che una volta messo via, viene salutato come un compagno di viaggio con il quale, dopo un lungo dialogo e una crescita comune, si arriva a un addio, a un esaurirsi.

Ma come cresce un attore tra un film e l’altro, quando la macchina da presa non lo spia? «Ho il privilegio di avere dei periodi di pausa dal lavoro nei quali mi dedico a vivere. Mi sento fortunatissimo ad avere del tempo che, mi rendo conto, molte persone non hanno… lo sfrutto al massimo in qualsiasi modo, viaggiando, passandolo con la mia famiglia, essendoci». Quando si raggiungono certi picchi, ci si guarda intorno da una posizione di vantaggio e lo sguardo si allunga su nuovi territori. Recitare le basta? «Ho fatto un’esperienza da regista in teatro, che mi è molto piaciuta, grazie al Festival di Spoleto, con un attore tedesco… nei prossimi anni vorrei provare nella doppia veste di attore regista, sarebbe bellissimo».