Razzismo, maschilismo, femminicidio: ‘Dopo 400 anni, nulla è cambiato’. In ‘Non sono quello che sono’, Shakespeare è trasportato sul litorale romano
È una delle storie di femminicidio per eccellenza, e il fatto che del film che la ripropone si discuta in un hotel che nel 2019 proprio di femminicidio fu teatro, è pura casualità (solo l’industria delle armi organizza conferenze stampa sulla scena degli omicidi di massa, questa invece è l’industria del cinema, per fortuna). ‘Non sono quello che sono – The Tragedy of Othello di W. Shakespeare’ è l’Otello per Edoardo Leo, venti chili in più per fare Iago e per dirigere il film, tornato in forma per il Locarno Film Festival e per ricordare come «in quattrocento anni il rapporto tossico è sempre lo stesso, la storia è drammaticamente contemporanea e non smette di esserlo, anzi, lo è sempre di più». E visto che l’Otello è così attuale, perché non farlo rimbalzare tra il 2001 – teatro dei fatti (del film) – e l’oggi di Iago in carcere che si fa intervistare, per non aggiungere una sola parola, come da antico copione, alla propria plurima verità.
Tra la conferenza stampa e l’incontro a margine, dell’Otello di Leo, con Leo e i protagonisti, si ricostruisce una genesi che risale a una decina d’anni fa: «Avrei tanto voluto che fosse il mio esordio alla regia, ma era troppo complesso da realizzare», spiega l’attore e regista. L’esordio dietro la macchina da presa, nel 2010, s’intitolava ‘Diciotto anni dopo’ (“Nessuno andò a vederlo, nemmeno i miei parenti”, ha dichiarato in marzo al Fatto Quotidiano, ma il film si prese comunque un buon numero di premi).
L’idea per ‘Non sono quello che sono’, al tempo, «fu uno dei tanti fatti di cronaca nera, quello di un ragazzo che aveva ucciso la fidanzata e poi si era suicidato, che è poi quel che accade in Shakspeare». Nell’ambientazione da romanzo criminale che rimanda a note e poco raccomandabili famiglie del litorale romano, e assumendosi il rischio della dissonanza, nel film di Leo, Iago è Iago (al massimo Ia’), Desdemona è Desdemona (la giovane Ambrosia Caldarelli) e così Emilia (la brava, e due volte David, Antonia Truppo) e l’Otello magrebino, interpretato da Jawad Moraqib, è anch’egli Otello. «Nelle intenzioni di Shakespeare, questa era un’opera molto popolare. È da qui che è nata l’idea di rimetterlo in scena come un classico ambientato ai giorni nostri, ma tentando di rispettare l’esatta traduzione: non ho toccato un solo articolo o aggettivo, l’ho solo trasferito al dialetto per rispettare l’accezione popolare. Non c’è nulla di mio pugno, non mi sono mai sognato di riscriverlo».
Edoardo Leo ha voluto il suo Otello magrebino per rimediare a un falso storico che il teatro ha propagandato, «attori tutti bianchi, come Gassman o Lawrence Olivier, truccati di un nero poco verosimile, perché è difficile che all’epoca di Shakespeare vi fossero centrafricani in Gran Bretagna». Lo ha voluto anche diverso da come le molte traduzioni e i molti monologhi lo hanno reso, producendo empatia nei confronti di chi ha ucciso per avere ‘amato troppo’. A questo proposito: «Viviamo in una società profondamente maschilista e patriarcale, e vale anche per chi crede di non appartenervi. Uscire dall’equivoco è il problema da affrontare oggi, e siamo già in ritardo». Per combattere il femminicidio, «più che leggi restrittive», servono «strumenti emotivi».
LFF
Ambrosia Caldarelli, Desdemona
Per quanto Leo non sia da tempo riconducibile alla sola commedia italiana, il ruolo del cattivo è tutt’altro che una consuetudine. Un giorno di tanto tempo fa, Gigi Proietti guardò il suo book fotografico e gli disse: “È inutile che fai il figo, tu non sei un figo: tu fai ridere”. Fu così che Leo lasciò da parte cose troppo seriose per seguire il consiglio del maestro, al quale, nel 2021, avrebbe poi dedicato il documentario ‘Luigi Proietti detto Gigi’. «Proietti, in verità, non mi consigliò di lasciar perdere Shakespeare, anzi. Semmai mi disse cose ben peggiori! (ride, ndr). Gigi ha rappresentato per me una spinta enorme per la sua idea di Shakespeare, da lui considerato un autore profondamente popolare e non da teatro borghese. Ricordo che gli chiesi cosa significasse per lui ‘popolare’ e mi rispose parlandomi di “capacità di accogliere”». In sintesi: «Io posso fare la cosa più complicata del mondo, ma la posso fare con due tensioni: fissandomi la punta dei piedi, dicendo “guardate quanto sono figo, se non capite è un problema vostro”, o con la voglia di renderla accessibile, anche se è la cosa più complicata del mondo. Questa lezione per me resta centrale non solo nell’Otello, ma nel mestiere che faccio. In fondo, la sinossi dell’opera, se scritta in quattro righe, non è tanto diversa da quella di una sceneggiata napoletana. Certo, la costruzione superiore è straordinaria, l’indagine sull’animo umano è sublime».
Nella semplicità del concetto, lo scopo di Edoardo Leo è che questo Otello possano vederlo le scuole, «per mostrare a un bulletto di 15, 16 anni l’effetto di quello che provoca, perché il problema che abbiamo è che la percezione del male in alcune persone è assente». Di questo male si parla anche in ‘Mia’, film uscito in aprile, storia di un giovane manipolatore che sconvolge la vita di una quindicenne. «L’attore è anche le scelte che fa – conclude Leo – e in questo momento è fondamentale interrogarci da maschi sul disastro che sta accadendo. È un’ecatombe totale, il cinema se ne deve occupare».