Se ‘Sweet Dreams’ di Ena Sendijarević è opera interessante, che dire di ‘Essential Truths of the Lake’ di Lav Diaz, che ci cala nel pianto del mondo
Finite, almeno per ora, le notti e le giornate di pioggia, questo Festival di Locarno ci ha regalato cinema a piene mani in questo lungo weekend. Cominciamo dal venerdì pomeriggio, quando in Concorso abbiamo trovato un film, ‘Sweet Dreams’ di Ena Sendijarević. Un’opera seconda interessante, pur con qualche limite narrativo dovuto a una eccessiva ricerca estetica, che porta il film a diventare una colorata videoinstallazione in cui la regia si abbandona all’autosoddisfazione di guardarsi. Certo l’ambientazione è un palazzo padronale nella campagna indonesiana, dove uno dei capitalisti olandesi che si sono divisi il territorio, muore d’infarto dopo aver fatto l’amore con una serva, da cui ha già avuto un figlio, sotto gli occhi acidi della moglie che gli nega la possibilità di chiedere aiuto. I due avevano un figlio in Olanda che si precipita, con la moglie incinta, a seppellire il padre nella speranza di raccogliere tutta l’eredità e di tornarsene presto a casa. Sogno infranto prima dalla madre e poi da un testamento che assegna tutto al figlio avuto dall’amante serva.
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Quelli di ‘Sweet Dreams’
In sé la vicenda è banale, ma è forse il primo film che tocca il tema del capitalismo/colonialismo olandese in quelle che si chiamarono fino al 1949 Indie orientali olandesi, nate in quest'area tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento. Un’area che diventò l’Indonesia di oggi, e che – sempre in Concorso – Lav Diaz racconta nel suo ‘Essential Truths of the Lake’, film che si situa prima di ‘Kapag wala nang mga alon’ (Quando non ci sono più onde), presentato da Lav Diaz a Venezia lo scorso anno. Il protagonista è sempre John Lloyd Cruz nelle vesti del tenente di polizia Hermes Papauran. Qui lo vediamo più giovane alle prese con uno dei numerosi casi di persone scomparse durante il governo di Rodrigo Duterte, detto il Castigatore per il suo violento tentativo di eliminare la piaga della droga nel suo paese. Cerca una ragazza che si batteva nel 2006 per salvare animali in via di estinzione, compresa l’aquila indonesiana; per trovarla, Papauran ancora si immerge in una spasmodica ricerca che lo porta a toccare anche la nomenclatura del paese. Per questo viene richiamato dalla Colonnella sua amica. Nel paese si verifica una grande esplosione vulcanica, e scopriamo il tenente ancora alla ricerca tra le ceneri, dove incontra un uomo in cerca la sua famiglia, finita sotto la tempesta; si impunta a cercare ancora. Un giovane viene ucciso, proprio vicino a dove abita lui, e non è sua giurisdizione; va dalla madre della vittima e piange, perché ha compreso che il suo ricercare era il soddisfare il suo io che nulla è di fronte al dolore di una madre che piange il figlio morto. Un capolavoro, semplicemente, in cui Lav Diaz ci guarda persi nel nostro quotidiano negarsi agli altri, e ci fa piangere immergendosi nel pianto del mondo.
‘The Vanishing Soldier’
Ancora in Concorso, ‘The Vanishing Soldier’ di Dani Rosenberg, con un sorprendente Ido Tako nella parte di Shlomi, un giovane soldato israeliano che diserta il campo di battaglia di Gaza per raggiungere la sua ragazza in procinto di partire per il Canada, in cerca di una vita normale. In 24 ore si compie il suo destino, narrato alla maniera irresistibile di Buster Keaton da un regista attento a misurare il dire: la censura in Israele è forte, e il fatto che questo film agli Oscar israeliani sia dotato di ben 11 nominations, la dice tutta sull’equilibrio del film. Certo, c’è la terribile diserzione che scambiata per un rapimento dai servizi segreti israeliani porta a decine e decine di morti, ma in Israele ragazzi e ragazze a 18 anni cominciano un servizio militare che per i maschi è di trentasei mesi e per le femmine un anno in meno. Con la sua esuberanza, con l’ardore dei 18 anni non più recuperabili, il ragazzo ha solo un desiderio: chiedere a lei di non partire... Intanto noi abbiamo riso e corso insieme a lui sulle ali della giovinezza, del suo essere cinema.
Ancora in Concorso, ‘La imatge permanent’ di Laura Ferrés, un film ambizioso che paga il peso del lavorare con non professionisti. L’idea era buona, scoprire una ragazza che a 15 anni diventa madre e il ritrovarla 50 anni dopo, ma se nella prima parte il film regge per la freschezza delle giovani (o meno giovani) attrici, per il loro cantare e vivere, nella seconda parte tutto si fa più pesante, vecchio anche come cinema, appesantito com’è non dall’improvvisazione bensì da pesanti burattini di carne.
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Laura Ferrés
Di sabato, ‘Anatomie D’une Chute’ di Justine Triet, Palma d’oro a Cannes, un'opera di grande potenza su un caso giudiziario che implica il peso della realtà e della finzione, che investe le più intime e sgraziate pagine di una storia d’amore che si trasforma in rancore. È il film che si è visto ieri in Piazza Grande, una pellicola che non cerca verità, che lascia affondare ogni detto e ogni visto nella significanza del supporre, un film che raccontando di un caso giudiziario – una donna che sembra aver ucciso il marito, un figlio presente ma non vedente – racconta un processo cinematografico, analizza il dire di una finzione, rivela cosa c’è di vero in un film, in un racconto, nel dire di vivere.
Stessa sera, stesso luogo, ‘Falling Stars’ di Gabriel Bienczycki e Richard Karpala, un film con le streghe che cadono dal cielo a sconvolgere tre fratelli. Poca la trama, un po’ debitrice di ‘The Vast Of Night’ di Paterson, e vuoto il racconto. E loro, in conferenza a confessare: “Se ci fossero stati i soldi...”.
Poco da dire anche per ‘Non sono quello che sono - The Tragedy of Othello di W. Shakespeare’ di Edoardo Leo, proiettato ieri sera, un film presuntuoso e impietoso verso le donne. Certo, quella del Moro di Venezia, qui diventato il Negro dei lidi romani, è una delle opere shakespeariane più complesse, se possibile, per la varietà dei temi e delle figure che porta in scena; il ridurlo a lotta per il potere gomorristico del traffico della droga toglie al dramma non solo una nobiltà che tradisce il suo essere nobile, ma rende pacifico il fatto che un femminicidio è necessario e sono due ancora meglio. Sullo schermo non vediamo Shakespeare ma una guerra di mafia. Si possono anche usare le parole del grande Bardo e farne una riduzione stringata in un moderno romanesco e napoletano con corollario di parolacce etc., ma è vero che oggi si possa fare solo così con una frenesia che riduce i cinque atti in poco tempo? Si è persa l’occasione di colorare Desdemona, dando ragione ai maschi che la condannano a morte.
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Domenica 6 agosto in Piazza Grande