L’intenso ‘Lucifer’ di Peter Brunner e il non riuscito ‘Espíritu sagrado’ Chema García Ibarra
In concorso inquietante, tra bambine rapite e usate per la pedopornografia o per le parti del loro corpo da vendere – nello spagnolo ‘Espíritu sagrado’ – e una coppia, madre e figlio handicappato persi nella miseria montana e nel fanatismo religioso nell’austriaco ‘Luzifer’. Il fatto è che entrambi i film si indirizzano a temi di grande attualità: il primo adombra il drammatico caso di Maddie, la bambina inglese rapita nel 2007 in Portogallo, mentre l’altro si avvicina agli eccessi di un mondo cristiano pericolosamente talebanizzato. ‘Espíritu sagrado’ è una volonterosa coproduzione tra Spagna, Francia e Turchia, diretta, al suo esordio nel lungometraggio, dal quarantenne Chema García Ibarra, che con l’aiuto professionale di Ion de Sosa come direttore della fotografia, qui in 16 mm, e dell’esperta Ana Pfaff al montaggio, guida un interessante gruppo di attrici e attori raccolti per strada. Il protagonista è un guardiacaccia in un parco, e non ha potuto essere presente a Locarno perché impegnato al lavoro. Il regista si confida: “Mi interessano gli opposti: la risata che esplode in mezzo alla cupezza, il dramma nella commedia. Come spettatore e come regista ricerco il malessere, lo stupore e la sensazione che l’inatteso sia sempre dietro l’angolo”. Questa è la sua idea, purtroppo la messa in pratica si è mostrata più difficile e complicata, vista anche la profondità dei temi trattati. Tutto parte da un’associazione di ufologi che pensa vicino un incontro con gli extraterrestri; incontriamo José Manuel (Nacho Fernández) un uomo mite e un po’ stupido: mentre nel paese tutti sono sconvolti dalla sparizione di una bambina, lui che ne è lo zio è tranquillo, anzi accetta di accudire la sorella gemella della bambina rapita quando la madre viene portata in un luogo dove forse si trova la figlia scomparsa. Il regista ci suggerisce di stare attenti, vediamo infatti lo zio gettare di nascosto nel fiume uno zaino uguale a quello della nipote che gli hanno affidato. Nell’indifferenza totale porta anche questa bambina all’organizzazione ufologica, credendo che le bambine servano per quell’incontro importante con gli Ufo, non sospettando di aver consegnato le bambine a una criminale organizzazione pedofila. Chema García Ibarra colora una cartolina senza riuscire a mettere un indirizzo per spedirla e il tutto resta nel campo di un “avrei voluto”, peccato.
Di ben altro genere e potenza è il ‘Lucifer’ di Peter Brunner, un film che ha le carte in regola per un Pardo d’oro. Un film che ha la grazia del grande cinema, per la qualità del linguaggio cinematografico, per il rigore delle idee presentate, per l’amore con cui conduce e coniuga i suoi protagonisti, e si resta estasiati di fronte al suo dire, che percorre l’essenza umana nella sua fragilità, nella sua ricerca continua di una fede in cui sprofondare la propria paura di vivere, nella barbarie con cui prosegue la sua distruzione del Pianeta. Importante è la collaborazione tra il regista e i protagonisti, non banali: Franz Rogowski, uno degli attori tedeschi più importanti in teatro e al cinema, grazie anche a una presenza inquietante, al suo fianco Peter Brunner ha voluto uno straordinario esordio, quello della pastora della Chiesa del Nord Susanne Jensen. Il regista era consapevole di quanto la pastora Jensen avrebbe portato al film: lei è stata esposta a violenze sessuali da bambina e da adolescente, è rasata, quasi completamente tatuata e a ricordare che spesso indossa un collare per cani, nel film compare una corona di spine di ferro. Lei qui è una vedova oltranzista cristiana che vive in modo primitivo di minima agricoltura e piccolo allevamento, senza rinunciare al telefonino e a Radio Maria, in una traballante baita tra le montagne dello Zillertal in Tirolo. Con lei il figlio mentalmente handicappato (un grande Franz Rogowski). Scrive Peter Brunner: “Nei miei film il realismo sociale viene eroso da dispositivi poetici, le persone reali entrano in collisione con personaggi di finzione. Il mio obiettivo è tradurre gli stati d'animo interiori in cinema puro”. E ci riesce: il rapporto tra madre e figlio cinematograficamente è degno di Sokurov, e non è un caso che a produrre il film ci sia un regista di valore come il premiatissimo Ulrich Seidl. La vita dei due è fatta di preghiere e poco altro, il figlio ha una sola amica, un'aquila di montagna in un rapporto di fiducia reciproca importante, Rogowski ha passato un anno in un riparo per rapaci per imparare a lavorare con loro e di grande effetto sono i loro momenti insieme. La loro pace viene frantumata dall'arrivo di droni che sorvolano il loro territorio e quello dell'unico vicino, impiegati da un'impresa chiamata a disboscare quel pendio della montagna per far posto a degli impianti turistici invernali. Presto scoprono la violenza dei nuovi arrivati che vogliono il terreno e sono pronti a costringere la donna a cederlo con la forza. Per farla firmare la ubriacano, lei che dopo una grave esperienza di droghe e alcool, ringraziava ogni ora Dio per averla resa sobria. Ora è ripiombata nell’alcolismo, Lucifero ha vinto. Il figlio prova a combatterlo ancora, ma la partita è persa, l’avidità ha vinto, un'altra parte del pianeta è distrutta. Si resta a guardare i titoli di testa per respirare fino in fondo la bellezza del Cinema.