Spettacoli

Cechov trionfa ancora e sconvolge Cannes

Tratto comune tra ‘Tre piani’ di Nanni Moretti e ‘Drive my car’ di Hamaguchi Ryusuke e il commovente e applauditissimo ‘Where is Anne Frank’, fuori concorso

Alessandro Sperduti in ‘Tre piani' di Nanni Moretti
12 luglio 2021
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Ci sono momenti in cui si sente sempre più la necessità di una presenza attiva del cinema come momento fondante di Cultura e Civiltà, nel tempo in cui tutto è lecito, anche essere annoiati per le morte dei migranti nel Mediterraneo o intolleranti verso chi chiede aiuto. Ebbene, il cinema che non è solo merce da supermercato come ci vogliono far credere Netflix e soci ma è un mezzo di comunicazione, come spiegava McLuhan, capace d’influire sulle masse, parola questa oggi in disuso ma che ben spiega ancora il suo essere classificante socialmente, in un mondo, come il nostro, frantumato tra ricchezza e povertà; ebbene, di questa essenza preziosa del cinema è felice aedo il Festival di Cannes. Mai come in questa giornata fondamentale per indicare le rotte del Cinema di oggi e quello del futuro. Proprio nella notte, un produttore italiano, di cui non posso fare il nome, ha insistito sul fatto che in Italia non esiste un cinema come quello di Catherine Corsini, che qui ha presentato con successo il suo ‘La fracture’, capace di essere politico e di fomentare discussioni partitiche sanguigne, e nello stesso tempo essere godibile spettacolo educativo. Anche il necessario e intrigante ‘Tre Piani’, che Nanni Moretti ha tratto dal romanzo omonimo del 2017 scritto da Eshkol Nevo, non sfugge a questa incapacità di una cinematografia, come quella italiana, che ha seppellito i Petri, i Rosi e compagnia per naufragare nel più banale e autoflagellante nichilismo.

Mosaico di laidezza e prevaricazioni

A Nanni Moretti non interessa prendere una posizione, e come può fare essendo prodotto anche dalla Rai e dalla televisione francese? Eccolo, quindi a raccontare la storia di un piccolo condominio romano dove in qualche anno le cose cambiano: gente che nasce, gente che muore, altri che provano a sopravvivere a se stessi. Tutto inizia con una donna che sola esce dal condominio per correre in ospedale a partorire, in quel momento arriva come un razzo un ragazzo del condominio che la evita, centrando prima e uccidendo una passante, per poi schiantarsi nella vetrina di uno dei condomini del primo piano, trovandosi davanti una bambina terrorizzata. La stessa bambina il giorno dopo viene affidata dai suoi genitori, come sempre agli anziani vicini di casa; restando sola con il vecchio inquilino, la bambina si perde con lui in un boschetto vicino; il padre della bambina disperato crede che il vecchio abbia violentato la figlia, senza rendersi conto della malattia dell’uomo e del suo stato di crisi avendo perso la memoria. Il padre non è convinto né dalla polizia né dalla moglie. Intanto il giovane investitore litiga con i genitori, magistrati, per essere aiutato a non affrontare il carcere: era ubriaco fradicio. La storia mette insieme un mosaico di laidezza e prevaricazioni, frutto di generazioni via via prive di un valore morale. Il padre della bambina viene accusato di violenza carnale su minori per aver fatto l’amore con la nipote del vecchio che odia fino a picchiarlo. C’è un malessere espresso visivamente da Moretti nel film quello dell’imbarbarimento di una società incapace di riconoscersi in un essere civile. Lui stesso nel film impersona il padre del ragazzo ubriaco e assassino, un magistrato integerrimo che crede in valori di giustizia ormai sciolti nell’acido dell’ego trionfante. Il film resta nella mente, non è il miglior Moretti ma è il suo film più doloroso e sincero, un film che nulla concede, ma tutto regala anche un cast da applausi che comprende il meglio attoriale del cinema italiano.

Dal Giappone è arrivato in concorso ‘Drive My Car’ di Hamaguchi Ryusuke, un film road movie sulla sedimentazione del dolore determinato dall’amare e sul grande teatro come irrinunciabile monumento alla bellezza e complessità dell’essere umano. Qui scopriamo un attore, Kafuku (un intenso Hidetoshi Nishijima), impegnato in ‘Aspettando Godot’ di Samuel Beckett; a fargli i complimenti, l’amata moglie Oto (Reika Kirishima), famosa sceneggiatrice televisiva; lei è con un suo giovane attore, Takatsuki (un bravo Masaki Okada). Chiamato per uno spettacolo fuori Tokio, Kafuku sta per prendere l’aereo ma viene avvisato che il volo è cancellato; naturalmente, tornando a casa trova la moglie a gioire con l’attore. Lui non interviene: parte e torna. Lei gli promette di parlargli, al ritorno la trova morta. Lui va a recitare ‘Zio Vanja’ di Cechov, nel ruolo del titolo, ma sconvolto non porta a termine la recita; due anni dopo viene chiamato a dirigere ‘Zio Vanja’ a Hiroshima, e qui come attore si ritrova l’amante della moglie. Film intenso, importante, sincero nel suo raccontare, per quasi tre ore scorre nell’eternità del dettato cechoviano che è il nostro quotidiano essere, come ci dice Sonja, che nel film è interpretata da una ragazza muta, in uno dei momenti più straordinari: “Che vuoi farci, bisogna vivere! Noi, zio Vanja, comunque vivremo. Vivremo una lunga, lunga serie di giorni, di lunghe serate; sopporteremo con pazienza le prove che il destino ci manderà; ci affaticheremo per gli altri, e adesso e da vecchi, senza conoscere tregua e, quando verrà la nostra ora, moriremo con mansuetudine, e di là, dalla tomba diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che sentivamo tanta amarezza, e Dio avrà pietà di noi, e io e te, caro zio, vedremo una vita luminosa, stupenda, meravigliosa, ne saremo contenti e ci volteremo a guardare le nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso… e riposeremo. Io credo zio, credo ardentemente, appassionatamente… Riposeremo! Riposeremo!...”.


'Drive My Car' di Hamaguchi Ryusuke

Le troppe Anne che ci sono oggi

Certo, questo estratto di Cechov che riassume questo film, e anche quello di Moretti, diventa consolazione anche nell’applauditissimo e commovente ‘Where Is Anne Frank’ del bravo regista israeliano Ari Folman, un film di animazione, fuori concorso, con protagonista Kitty, l’amica immaginaria di Anna Frank. Oggi Kitty vive ad Amsterdam nella casa che fu di Anna e che oggi è un museo. Qui fa i conti con milioni di turisti e un giovane borsaiolo che spesso capita a lavorare tra il pubblico; Kitty sa che il suo vivere è appartenere alle pagine del diario di quella bambina che l’aveva voluta come amica segreta, quei fili d’inchiostro sono la sua linfa la sua esistenza i suoi ricordi, e rivive le storie di Anna e il nascondiglio e i rapporti con tutti. Ma non le basta: vuole capire perché spesso le vetrine della casa museo sono infrante dai sassi di ragazzi rinati al nazismo. Esce portando con sé il diario, aiutata dal giovane borsaiolo. Con lui impara a vivere fuori: scopre, addolorata, che Anna e altri protagonisti del diario sono morti, sfuggono alla polizia; scopre che il borsaiolo e suoi amici rubano per aiutare immigrati che sono destinati a essere cacciati dall’Olanda. Non sembra difficile vedere il destino di Anna e confrontarlo con quello dei migranti, il nascondersi, la paura di essere scoperti, cacciati dai propri rifugi, rispediti nei campi di concentramento in Libia, in Turchia, in Grecia… Accompagnata dal solito amico, Kitty va a Bergen-Belsen per scoprire dove Anna ha smesso di vivere, e scopre il senso, il valore del diario che ha con sé e che ormai tutti cercano di riavere. Lo offrirà di ritorno, sapendo che, consegnandolo, segnerà la propria morte. Lo farà in cambio della cittadinanza per tutti i migranti costretti a essere cacciati dall’Olanda. Anna sarà contenta di lei. E forse qualcuno, leggendo il suo diario, non si tapperà il cuore per non vedere che non ci curiamo delle troppe Anne che ci sono oggi. Grande film, di quelli che non solo servono, ma che regalano insieme a una storia da maledire la voglia di vivere.

In cieli veramente più bassi stenta a volare ‘Bergman Island’ di Mia Hansen-Love. La regista ci porta sull’isola svedese di Fårö, dove Bergman ha vissuto e ha trovato ispirazione, qui nel corso di un’estate, arriva una coppia di registi per scrivere delle sceneggiature, naturalmente le cose non sono semplici e l’ombra di Bergman confonde rapporti e situazioni. La regista colora i particolari ma è la vita che manca a una messa in scena banale e scontata. Poteva essere una buona idea.


‘Where Is Anne Frank’ di Ari Folman (credits: Purple Whale Films)