Locarno 74

La storia e la religione entrano subito in concorso

Abbiamo visto ‘Al Naher’ di Ghassan Salhab e ‘Nebesa’ di un maturo Srđan Dragojević

5 agosto 2021
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L'immagine si ferma su un albero nella foresta libanese e sul tronco un numero: 58. «È il mio anno di nascita», spiega Ghassan Salhab, regista di ‘Al Naher’. primo film in competizione in questo Locarno 74, poi aggiunge: «È anche l'anno in cui comincia la crisi libanese». Già, bisogna assolutamente rifarsi al Libano dopo l'indipendenza dalla Francia. Alla sua composizione etno-religiosa complessa, impossibile, costituita da una maggioranza di cristiani arabofoni (suddivisi tra maroniti, greci-ortodossi e greci-uniati), da una forte minoranza di musulmani (a loro volta suddivisi tra sunniti e sciiti) e ancora altri gruppi come i drusi e gli armeni. Come si fa se non con compromessi a trovare pace e un governo? E questa complessità è quella che il regista riversa sulla storia d'amore impossibile che va a raccontare tra segni e simboli che caratterizzano la sua propria cultura, la sua stessa storia.

«Al Naher è la parte finale di un trittico. Ciò che lega quei film è essenzialmente organico, una minaccia costante che colpisce tutti noi e che in Libano è presente da troppo tempo», argomenta Ghassan Salhab, senza dimenticare che sono le povere storie di ognuno che confluiscono nelle grandi storie che ci vedono simili ad Alice impreparati per quel paese delle meraviglie che è in nostro Pianeta. Eccoci allora con un uomo e una donna che vediamo al tavolo di una isolata trattoria tra i monti del nord del Libano, lontani da Beirut. Improvvisamente si ritrovano soli e a uno a uno inseguendosi si immergono nella rocciosa foresta dove i silenzi vengono rotti dall’aviazione, si lascia intendere israeliana. Erano insieme, erano amanti, erano futuri, ma si ritrovano passato, inguaribile anche dal sesso, che diventa gesto vuoto, e allora bisogna affondare nelle buie caverne dell’addio, tra le onde di un fiume che crea confini, irrisolvibili. Preferiamo la recitazione di lei, una brava Yumna Marwan; lui è più legnoso, un Ali Suliman costretto nel personaggio e appesantito da una pistola. «In Libano la portano tutti» spiega il regista ammettendo il fallimento delle parole. Il suo è un film doloroso e privo di speranze, come dicevamo è lo specchio tragico di un paese che muore.

Secondo film in Concorso è stato il serbo ‘Nebesa’ di un maturo Srđan Dragojević, che dice del suo undicesimo film: «Avendo trascorso metà della mia vita in una società socialista e atea, creare un film sul cristianesimo è stato per me un compito impegnativo. Soprattutto perché la mia intenzione era sia quella di essere rispettosa che quella di fare una commedia». Un film sul cristianesimo, quindi, e sui miracoli. Un film che il regista divide precisamente in tre capitoli. Il primo è ambientato nel 1993 in un poverissimo villaggio baraccopoli dove sono accolti sfollati della guerra civile che portò alla frantumazione e la fine della Jugoslavia. Qui conosciamo Stojan (un bravissimo Goran Navojeć), un buonuomo anzi un uomo molto buono che si ritrova sulla testa un'aureola luminosa che nessuno sa toglierli. La moglie Nada (una imperdibile Ksenija Marinković) è affranta da questo segno della bontà del marito tanto da affidarsi a un guaritore televisivo che le spiega che l'unico modo per far sparire quell'aureola è far peccare l’uomo. La moglie impegna tutti i suoi averi e le sue amicizie per far peccare l'uomo, che alla fine cede solo per non dar dispiacere alla sua Nada, incapace di comprendere quel vaso di Pandora che era andata a scoperchiare. Stojan diventa cattivo e crudele ma non perde l'aureola, che diventa simbolo della sua malvagità, egli arriva al punto di voler far prostituire la sua bambina Julija.

Lo ritroviamo a comandare un carcere nel 2001, momento in cui incontriamo un altro miracolo. Il folle Gojko (un Bojan Navojeć da applausi) preso in giro da un ricco affarista pensa che il cellulare serva per contattare la Madonna, per averne uno uccide l’affarista e la moglie, finendo così condannato a morte, ma il giorno della fucilazione sul suo letto i guardiani trovano un bambino, lo stesso Stojan decide di fucilarlo. Ma passiamo al 2016: Stojan è diventato un politico importante, sua figlia una gallerista di fama e sua moglie una barbona che si prostituisce alle persone più infime per mangiare. La figlia incontra il bambino del carcere diventato uno schizofrenico pittore e qui l'invenzione del regista sceneggiatore è di quelle da ricordare. Grande commedia e riflessione su un mondo che usa fede e miracoli per sopraffare i popoli, per cancellare i diritti più elementari, e sullo sfondo si legge il destino dell'Europa dei Duda e degli Orban, di quel cristianesimo pagano che non prevede perdono né resurrezioni, né fratellanza né accoglienza. Si parte alla maniera di Kusturica, si arriva alla denuncia dagli echi pasoliniani, è cinema che omaggia il cinema.