Intervista al regista italiano, fuori concorso al festival col suo documentario ‘Dal pianeta degli umani’
Incontriamo il regista Giovanni Cioni, venuto qui a Locarno per presentare, fuori concorso, il suo ultimo documentario ‘Dal pianeta degli umani’. Il nostro è un incontro informale, seduti sugli scalini di una porta esterna delle Magistrali, liberi di fumare, di ascoltare il canto di qualche uccello, di divagare su pensieri altri che sfiorano o determinano anche un film come il suo, localizzato al confine tra Ventimiglia e Mentone, in quelle strade diventate ora rotte di migranti, dove l’indifferenza degli Stati avverte che nelle gallerie di confine c’è il pericolo di incontrare pedoni – in pratica il consiglio di non investire i migranti.
Gli chiediamo perché questo ritorno a Locarno, dove avevamo visto il suo ‘Non è sogno’ in quel 2019 che la pandemia ci fa ricordare ancora più lontano e diverso. «Amo Locarno perché qui c’è una vera attenzione al cinema che esplora i linguaggi cinematografici e ricerca la realtà, che è anche la linea del neodirettore: non un cinema d’autore, ma il cinema del rinnovamento nella visione di un mondo che è cambiato e continua a cambiare. La direzione del festival, poi, conosce il mio lavoro e hanno accettato con entusiasmo il mio film prima ancora dell’edizione finita. In questo senso ci vuole fiducia: quella di un regista verso il Festival e viceversa, comunque il regista è l’ultimo a sapere come va». Gli chiediamo come è nata l’idea di fare un film su questo confine e lui ci risponde: «Posso dire che è stato un incontro con un luogo, il tragitto tra Ventimiglia e la Francia, una frontiera che non esiste per chi fa jogging o per i francesi che vengono in Italia per risparmiare sul prezzo di sigarette e alcolici: su questo tutti fanno silenzio, in altra maniera dal silenzio che pesa sui migranti al confine. A questo ho voluto aggiungere un’altra storia, perché ho scoperto proprio sopra la frontiera una villa con delle gabbie nel giardino. Si tratta del Giardino e della Villa Bennet-Voronoff di Grimaldi: qui il medico Serge Voronoff allevava scimmie per usare i loro testicoli che trapiantava in uomini anziani per rinvigorire la loro virilità. Quindi questa frontiera è diventata come un crudele film fantastico e a raccontare la realtà del presente, un coro di rane. Voronoff era un ebreo russo, i suoi fratelli furono deportati nei campi di sterminio dove morirono, poi perse tutte le sue ricchezze».
Non abbiamo parlato di due strane eredità di questo medico: il famoso filetto alla Voronoff e, pochi lo sanno, il Monkey Gland, un all day cocktail a lui dedicato con gin, succo d’arancia, granatina e assenzio. Ma torniamo alle rane: «Il film l’ho fatto – spiega Cioni – nel momento dell’isolamento da virus, sentivo le rane cantare nelle cisterne semichiuse, senza conoscere il mondo intorno, come noi che cantiamo in un mondo che non conosciamo. A causa della pandemia per il film ho usato quello che avevo girato durante il sopralluogo, a cui ho aggiunto immagini d’archivio. C’è stato un grande lavoro di montaggio per trovare forma e equilibrio tra reale e fantastico, un meccanismo che si è rinnovato».
Parlando di migranti e toccando un tema caro agli animalisti contrari alla violenza sugli animali, pensa di aver preso una posizione politica con questo film? «Non posso dare messaggi politici, non è un film a tesi. Cerco di aprire le storie a delle domande. All’interno del film c’è una parte della mia propria storia, il film quindi non è neutro ed è politico nel senso intimo delle scelte individuali. Tutti sanno che così non si può andare avanti, anche se c’è chi invece pensa che si debba andare avanti come prima del virus. La pandemia è solo un sintomo, la normalità è il vero problema». Lo stanno chiamando per le foto di rito, lo ringrazio e lui mi risponde: «Mi è piaciuto vedere che lei annotava le mie risposte, non le registrava, mi ha dato la possibilità di valutare cosa risponderle, è ormai raro». Grazie.