Nulla si può capire nel suo cinema se non si parte dal suo essere prima di tutto poeta
Si potrebbe cominciare con alcuni versi di suo padre Attilio: “Coglierò per te l'ultima rosa del giardino, la rosa bianca che fiorisce nelle prime nebbie. Le avide api l'hanno visitata sino a ieri, ma è ancora così dolce che fa tremare”, per dire del brivido che ha portato la sua morte, pure attesa. Se n’è andato Bernardo Bertolucci, e subito viene in mente la vita, già la vita come evento continuo da vivere. E lui che ricorda: “Un giorno, incontrandomi sulla porta di casa, Pier Paolo mi chiede: “Ma tu volevi fare cinema, giusto?”. E io: “Certo”. “Bene, io farò un film, il mio primo film, e tu sarai il mio aiuto regista”. E io dissi: “Ma Pier Paolo, è una follia! Non sono mai stato su un set, non ho mai fatto l’aiuto regista”. E lui: “Eh, nemmeno io ho mai fatto il regista”. E uscì ‘Accattone’”.
Già, Pasolini. Nume indimenticato di Bertolucci e nulla si può capire nel suo cinema se non si annuncia con il suo essere prima di tutto poeta, innamorato dei padri: quello reale, poeta sommo; l’altro putativo, più imitato, poeta, scrittore, autore cinematografico, ultimo intellettuale di un’Italia che anche Bernardo non ha proprio mai amato del tutto. Continuando nei ricordi, suoi: “Anche io ho cominciato con l’imitazione del padre, scrivendo poesie. Poi, verso i sedici-diciassette anni, è nato il grande amore per il cinema. Già era cominciato quando da bambino mio padre, critico cinematografico della Gazzetta di Parma, mi portava al cinema con lui in città. È stato quindi anche per me una necessità, perché mi sono reso conto che come poeta mio padre era ‘imbattibile’. Dovevo trovare un’altra strada – la mia strada – ed era quella del cinema, che già avevo molto amato”.
Una strada lunga e complessa con un unico punto imprescindibile, il film che Pauline Kael, grande critica americana, definì “un’esperienza sontuosa, emotivamente piena”: ‘Il conformista’, un film da Alberto Moravia, sicuramente il suo film più compiuto, maturo, coerentemente riuscito. Un film che segna il passaggio tra un prima e un dopo, come succede con tutti i grandi artisti e Bertolucci lo è, proprio per la sua capacità di non fissarsi limiti, di esagerare anche, ed esagerato è ‘Ultimo tango a Parigi’ un film estremo, una sfida culturale, uno scandalo, che qualcuno ha paragonato a quello che provocò nella musica Stravinskij con ‘Le sacre du printemps’. E il paragone rende grazie all’arte di un regista unico, capace di leggere il tempo, di conquistarlo, al di là dei nove Oscar per ‘L’ultimo imperatore’, il suo più bell’omaggio a Sergio Leone, a un’idea di cinema che molti hanno voluto vedere hollywoodiano e invece era legato a quell’esperienza di ‘C’era una volta il West’ che gli aveva insegnato che il cinema era una favola, e favola era anche ‘Novecento’, l’ultima grande favola su un Paese non casto quale è l’Italia, che mai l’ha proprio amato.
Perché Bernardo Bertolucci ha voluto dire anche una cultura di sinistra, e non perché abbia al suo attivo un addio a Berlinguer, ma perché in un mondo che ha sempre amato il fascismo a braccetto con il cattolicesimo ha saputo parlare una lingua diversa, quella della Cultura non compromessa con l’industria cinematografica.
Potevamo dire de ‘La comare secca’ che è la morte e l’inizio del suo essere autore, e del sodalizio artistico e sentimentale con la moglie inglese Clare Peploe, e del suo dire “Non si può vivere senza Rossellini”. E diventava elenco dove nulla dimenticare il voler ricordare a uno a uno i suoi film da ‘Prima della rivoluzione’ (1964) a ‘Io e te’ (2012), ma quello che resta oggi è solo il senso di un vuoto impossibile da colmare: Bernardo Bertolucci è morto.
In una sua poesia scriveva: “Si prolunghino all’eterno / il duro e il morbido / di un attimo e della sua luce”. Maestro tu sei stato attimo e luce.