Il critico italiano, ospite di L’immagine e la parola, ci racconta l’importanza, nei tempi di social media, di uno sguardo indipendente sul cinema
Tra gli esploratori inesausti – titolo dell’edizione di L’immagine e la parola che inizierà stasera alle 21 al GranRex con la proiezione di ‘Le armonie di Werckmeister’ col regista Béla Tarr – troviamo anche il critico Paolo Mereghetti. All’evento primaverile del festival di Locarno (info: locarnofestival.ch/immagineparola) il critico presenterà, domani alle 17.30, il suo celebre Dizionario dei film e poi, alle 20.30, introdurrà con Jacopo Quadri il film ‘Io e te’ di Bernardo Bertolucci, recentemente scomparso.
Un regista che ci lascia alcuni grandi film – «‘Ultimo tango a Parigi’, ‘Il conformista’, ‘Novecento’, ‘L’ultimo imperatore’, ‘Il tè nel deserto’ sono dati nella storia del cinema che non si possono cancellare» – ma non solo. «A me sembra che Bertolucci sia il regista che più di tutti sia riuscito a coniugare le sue ambizioni d’autore, il voler raccontare un proprio mondo, i desideri e i sogni di un borghese colto di fronte alla vita, con le esigenze del grande spettacolo, le forme dei generi tradizionali, il kolossal, il melodramma… cose che un certo tipo di cinema d’autore – pensiamo a quello a cui Bertolucci si è ispirato, della ‘nouvelle vague’ – sembrava aver mancato, con dimostrazioni di genialità di singoli autori».
Esattamente. Cosa che tutti i grandissimi hanno fatto: Hitchcock, Ford, Hawks, Lang… mentre negli ultimi venti o trent’anni non sempre questa esigenza è stata rispettata. Ma Bertolucci lo faceva sempre: sapeva raccontare delle storie che appassionassero il pubblico, facendo sì che in questa passione ci fossero delle genialità.
Mah, grosso modo tra i 20 e i 30 anni… Fino ai 18, 19 anni il cinema mi appassionava, mi divertiva, come tutti. Ma pian piano ho imparato a leggere dentro i film, a capire che potevano avere delle qualità che prima mi sfuggivano. Ho cominciato a studiare il cinema e ho pensato che questo mi piaceva: aiutare le persone a entrare meglio in un film, a capire meglio quello che il film rappresenta.
Perché sono convinto che il critico sia questo: una persona che prende per mano lo spettatore non per imporgli la sua visione, ma per aiutarlo a capire le qualità, evidenti o nascoste, di un film – e anche ovviamente le sue non qualità. Perché la cosa fondamentale di un critico non è dire se un film è bello o brutto, quello arriva se mai alla fine.
Quando ho iniziato, erano gli anni Settanta, la cultura era una cosa importante – ahimè adesso lo è un po’ meno. E mi ero convinto che questo tipo di lavoro potesse essere importante. Perché per me lo era: quando sono di fronte a un quadro, una composizione musicale, un libro che naturalmente giudico, dico se mi piacciono o non mi piacciono, ma magari mi sfuggono delle qualità, e allora leggo chi mi aiuta a capire meglio. E questo secondo me è utile anche per il cinema che quando ho iniziato – oggi un po’ meno – era ancora lo strumento culturale principe del Novecento, quello in grado di far comunicare le persone con il mondo culturale. Se il romanzo è stato il grande mezzo culturale dell’Ottocento, il cinema lo è stato del Novecento… ma non mi chieda quale è quello del Duemila perché non lo so.
Diciamo che si è un po’ perso il rispetto per il lavoro critico. Io sono convinto che sia ancora importante: non credo che “uno valga uno”, nel senso che certo uno ha il diritto di dire se una cosa gli è piaciuta o no — e vorrei vedere! — ma al di là di questo piacere immediato ci sono delle cose che un critico può aiutare a capire. È vero, ci sono tanti tweet, tanti commenti… ma cosa mi danno? Mi aiutano a capire meglio un film? Certo mi dicono se quel film è popolare, ma questa popolarità può anche essere frutto di un marketing astuto.
Tante volte mi ricredo sui film, o magari li capisco meglio, li vedo meglio. Ma penso succeda a tutti: di solito uno le poesie le rilegge due-tre volte prima di capirle fino in fondo, e anche i film alle volte devono essere visti due o tre volte.
Faccio sempre l’esempio della ‘Vita agra’ di Lizzani che se uno avesse voglia di perdere tempo troverebbe, nelle prime edizioni del dizionario, con una stella e mezza, mentre adesso ne ha tre. Anche ‘Luna di fiele’ di Polanski è un film che quando è uscito non mi era piaciuto e po invece mi ha convinto molto. Per tornare a Bertolucci: ‘Prima della rivoluzione’ è uscito nel 1964, io devo averlo visto nel ’67, ’68 non ricordo, anni in cui l’impegno politico era fondamentale per cui tutti preferivamo ‘I pugni in tasca’ di Bellocchio, più ribellistico. Invece con gli anni mi sono accorto che ‘Prima della rivoluzione’ era un gran bel film, capace di raccontare le ambiguità, le paure, le titubanze delle persone di fronte a qualcosa che avrebbero voluto e che poi non riuscivano a fare.
Assolutamente vero: è cambiato proprio il mondo dei grandi studios. Non sono più persone che amavano il cinema e a volte rischiavano qualcosa, ma fondi di investimento che non vogliono perdere i loro soldi. E con l’aumento dei costi dei film sono diminuite le possibilità di rischiare, perché quando spendi 150 milioni di dollari non vuoi rischiare il fallimento. Questa cosa ha spinto i grandi studios ad andare sul sicuro: gli ‘Avengers’ sono andati bene? Facciamo il 2, il 3, lo spin-off… I cartoni della Disney avevano successo? Rifacciamoli con i personaggi in carne e ossa!
Ma alla fine risulta controproducente: non stimolano più gli spettatori, se una volta si andava al cinema e si restava a bocca aperta, adesso è tutto previsto e prevedibile, perché non si vuole disturbare l’immaginazione dello spettatore. Finendo per impoverire il cinema.