Nostro viaggio nella carriera del regista e sceneggiatore. In lui una lucida coscienza narrativa che mette in ginocchio qualsiasi tentativo di imitazione.
Il mio amico Gideon Bachmann, pace all’anima sua, mi parlava spesso di Fellini, Federico; aveva fatto la comparsa in un suo film per scattare migliaia di foto e raccontarlo: “Federico era un regista che faceva molto parlare all’epoca, anche a New York si interessavano a lui, e per me è stato anche un amico”.
Gideon era a New York e da quella sponda dell’Atlantico si era innamorato di quel regista, così diverso dalla monotonia programmata dell’industria hollywoodiana, e aveva voluto conoscerlo, trovando in lui il compimento vero dell’idea di un cinema underground portato all’estrema sua funzione, il trionfo dell’immagine immaginata. Di lui si ricordava anche del rapporto con i personaggi che sarebbero diventati i suoi attori, le sue attrici, pronti a frequentare il suo dipinto, novello Hieronymus Bosch di quella disastrata e maltrattata arte che è il cinema.
Già, morto il 31 ottobre 1993, non ha fatto in tempo a conoscere l’epoca di internet, non ha fatto in tempo a vedere i film fatti con il telefonino, lui credeva ancora in una grammatica del cinema, aveva un’idea della differenza che esisteva tra un attore e un guitto, pensava che il cinema non potesse far senza Rossellini e Chaplin. E cos’era il suo far cinema senza loro? Ogni volta che si guarda ‘La strada’ e la fragile Gelsomina (nella vita l’indimenticabile Giulietta Masina, sua moglie, nata un anno dopo di lui, nel 1921, e morta un anno dopo, nel 1994, come a segnare una completa comunione nel destino), ebbene, riguardandola come non scoprire in lei la dolce follia del Francesco rosselliniano (‘Francesco giullare di Dio’ del 1950), la delicatezza sognante del Chaplin pellegrino (‘The Pilgrim’, 1923) e quella base di tutti che sono i semplici e puri di Dostoevskij? E i suoi clowns (‘I clowns’, 1970) non avrebbero frequentato volentieri il circo chapliniano (‘The circus’, 1928). E come Rossellini e Chaplin, anche Fellini si guadagna l’aggettivo “felliniano” che di lui spiega più di tanto lavoro critico, come si legge sulla Treccani: “Relativo al regista cinematografico Federico Fellini (1920-1993) e alla sua opera, soprattutto con riferimento alle particolari atmosfere, situazioni, personaggi dei suoi film, caratterizzati da un forte autobiografismo, dalla rievocazione della vita di provincia con toni grotteschi e caricaturali, da visioni oniriche di grande suggestione”, e c’è tutto qui? C’è Marcello Mastroianni? C’è la musica di Nino Rota? C’è quel figlio avuto con la Masina, Pier Federico, nato il 22 marzo 1945 e morto appena pochi giorni dopo la nascita, il 24 aprile.
E quanto questo ha segnato il rapporto con il mondo dei morti, Fellini pensava ossessivamente alla morte, hanno scritto i suoi amici. Certo che “felliniano” è un termine che ritorna spesso, forse più in teatro ormai che in un cinema fossilizzato nel giogo televisivnetfixiano (che terribile neologismo), l’abbiamo usato poche ore fa per dire di un emozionante spettacolo alla Fenice di Venezia (‘A Hand of Bridge’ atto unico di Samuel Barber e ‘Il castello del principe Barbablù’ di Bartok), dove la lezione di Fellini nelle scene, nei costumi, nella regia, era più che evidente nelle visioni oniriche e toni caricaturali.
Ecco una preziosa eredità da parte di un artista, Fellini, sempre attento allo spettacolo come mondo a parte, come termometro della vita quotidiana, come analisi di un fallimento sociale in cui il riminese con toni diversi camminava parallelo a Pier Paolo Pasolini. Non si erano amati al primo incontro, il poeta di Casarsa stava girando ‘Accattone’ proprio per la appena nata “Federiz” (Federico Fellini più Rizzoli), ma dopo due scene girate in tre giorni, Federico Fellini ritirò la produzione perché convinto del dilettantismo dell’esordiente. Questo lapidario giudizio rende bene l’idea professionale di un regista mai casuale, profondamente professionista pur nell’invenzione cinematografica, niente viene lasciato al caso nel suo fare cinema.
C’è in questa perfezione il suo marchio, Fellini è autore ma soprattutto regista vero, la lezione di Rossellini è sempre presente e forse di più quella di un metteur en scène come Luchino Visconti, perché Fellini è un metteur en scène allo stesso modo di un Stanislavskij, con un metodo che lo avvicina per impegno e serietà a un Carmelo Bene.
C’è in lui una lucida coscienza narrativa che mette in ginocchio qualsiasi tentativo di imitazione, bastano i pochi minuti finali del suo “Roma” per mandare dietro la lavagna il povero e presuntuoso regista de “La grande bellezza”, perché Fellini è il Cinema e altri fanno solo film. E gli Oscar? Ne ha vinti cinque per i suoi film “La strada”, “Le notti di Cabiria”, “8½” e “Amarcord” più uno per se stesso, alla carriera, nel 1993. Roberto Rossellini non ne ha vinto nessuno, Chaplin ne ha vinti due alla carriera e uno per la musica nel 1973 per un film del 1952, Hollywood non sapeva più come scusarsi con lui, Pier Paolo Pasolini ha visto qualche suo libro uscito negli Oscar. Non abbiamo nominato Michelangelo Antonioni, ad un certo punto in Italia era diventato un gioco contrapporre il loro cinema, come se uno fosse Coppi e l’altro Bartali, ma il gioco era più complicato e faceva parte di un’idea di a cosa serve il cinema, Coppi e Bartali non si sono mai chiesti a cosa serve il ciclismo e la Callas e la Tebaldi mai hanno dubitato della musica che cantavano, ma Fellini e Antonioni sì, e quest’ultimo annotava in due fogli di appunti che aveva steso su di lui, ritrovati, per caso, da Carlo di Carlo e consegnati poi a Tullio Kezich; “… Di Federico si può dire quasi tutto, nel bene e nel male, dico quasi perché anche chi avanza riserve sul suo cinema non ne disconosce mai l’alto livello artistico: considerato a ragione uno dei pochi grandi del cinema, non ho ancora capito se lui ritenga di meritare tanta stima, oppure sia assalito ogni tanto da dubbi, in altre parole se i suoi film lo convincano fino in fondo o anche lui nel suo intimo avanzi qualche riserva su di essi come capita a me con i miei. Probabilmente no, ma la questione non è così semplice…”.
Non è infatti una questione semplice… cento anni fa, 20 gennaio 1920, a Rimini nasceva Federico Fellini, suo padre vendeva dolciumi e liquori, sua madre era casalinga… La storia comincia così.