A Milano per ‘Dalí, Magritte, Man Ray e il Surrealismo. Capolavori dal Museo Boijmans Van Beuningen’, mostra aperta fino al 30 luglio 2023
È in corso a Milano, nelle belle sale del Mudec - Museo delle Culture, un'importante mostra che ha come lungo titolo ‘Dalí, Magritte, Man Ray e il Surrealismo. Capolavori dal Museo Boijmans Van Beuningen’. Un titolo troppo programmatico, e figlio del burocratismo del XXI secolo, per ben entrare e descrivere il mondo che invita a scoprire, quello del Surrealismo, attraverso opere provenienti dalla collezione del museo Boijmans Van Beuningen in Rotterdam. Una Mostra che in qualche parte tenta, senza riuscirci troppo, di legare il tema Surrealista con il Dada, ma è un problema ancora una volta di oggi, quello di una bulimia culturale che riesce solo a seppellire la Cultura. Se ne renderà conto il visitatore attento di questa mostra che si chiuderà il prossimo 30 luglio. Il fatto è che chi ha curato il percorso – Els Hoek storica dell’arte e curatrice del museo di Rotterdam, con il professor Alessandro Nigro, seminando ben 180 opere, tra dipinti, sculture, disegni, documenti, manufatti, tra le pur capienti sale del Mudec – non ha tenuto conto del peso cui sono trovati di fronte i visitatori, che hanno trovato un’enorme raccolta probabilmente non prevista.
Come tutti sanno, in principio fu una folgorazione. “Il est beau … comme la rencontre fortuite sur une table de dissection d'une machine à coudre et d'un parapluie!”. Frase tratta dal canto VI de ‘Les Chants de Maldoror’ di Isidore Lucine Ducasse, meglio conosciuta come ‘Comte de Lautréamont’, frase che illuminò André Breton, padre, profeta del surrealismo. E la nascita letteraria sarà peccato originale incancellabile per i Surrealisti, seppur amanti del pensiero fantastico delle immagini di Jheronimus Bosch e di Giuseppe Arcimboldo filtrate attraverso De Sade e Sigmund Freud. Surrealismo come “realtà univoca razionalmente e moralmente intesa” scrive Breton.
E proprio questa frase ci riporta nella stessa Francia, quella di Parigi, del primo dopoguerra, a ripensare a una frattura tra il Primo Manifesto del Surrealismo, del 1° dicembre 1924, e quell’arte diversa, più classica, forse, vista in una mostra poco lontano da qui, a Rovigo, dedicata a ‘Renoir, il classicismo e l’Italia’, che chiuderà a fine giugno. Una mostra dove si incontrano anche Arturo Tosi, Enrico Paulucci e Carlo Carrà, autori dove il pennello ha un peso ottocentesco, un pennello impaurito dall’intingersi nel sangue copioso delle vittime della Prima guerra mondiale, sangue di cui i Surrealisti si sono nutriti insieme ai Futuristi. Ma mentre questi cantavano rumori e meccanica, i Surrealisti lanciarono la loro sfida onirica al XX Secolo, all’insegna di parole d’ordine quali “sogno, irrazionalità, psiche, inconscio, meraviglioso, pulsioni, amore, sesso”. Attenti più al padre della psicanalisi che al Duce italiano. Proprio il primo dicembre 1924, a Parigi, il poeta André Breton pubblicò la sua raccolta di prose “Poisson Soluble”, la cui introduzione sarebbe diventata il Primo Manifesto del Surrealismo. E scriveva a proposito della surrealtà di un io interiore inconscio: “un automatismo psichico allo stato puro, con il quale ci proponiamo di esprimere verbalmente, per iscritto o in qualunque altro modo il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, esente da qualsiasi preoccupazione estetica o morale”.
La Mostra milanese si apre con la famosa opera del 1938 di Salvador Dalì ‘Mae West Lips Sofa’: quelle carnose labbra rosse isolate dal corpo raccontano più di erotismo che di sensualità, ma è in tutto Dalì che questa presa di posizione trionfa insieme a un profondo sarcasmo contro quel vivere quotidiano, un rifiuto al voler essere umano. E Mae West non è il solo riferimento cinematografico: i visitatori si fermano incantati di fronte a ‘Un chien andalou’ (1929) di Luis Buñuel e Salvador Dalí, il delirio di quelle mani colme di formiche, il bue a passeggio nella casa, il taglio dell’occhio, e scoppiano a ridere di fronte a ‘Entr'acte’, film di René Clair del 1924, con quel cammello che tira un carro funebre e tutti a inseguirlo perché aumenta la velocità. Il fatto è che il Surrealismo non si dimentica di quel sorriso della ragione che era il simbolo di Diderot. E a conferma di ciò è la presenza in Mostra di René Magritte con opere capaci di inquietare e dare il senso del nostro quotidiano e avvelenato vivere, come ‘Le poison” opera di sintesi estrema dove si fondono in estremo gioco significato e significante, o come ‘La maison de verre’, scelto dalla Mostra come manifesto e logo.
Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam Credit line photographer: Studio Tromp © René Magritte by
René Magritte, ‘La maison de verre’ (1939)
Che dire poi nel violento e straordinario ‘Le Modèle rouge’, con quelle scarpe piedi a dire di una vita scomparsa e che puoi ritrovare solo guardandoti allo specchio. E se Magritte è protagonista, ancor di più lo è Dalì con opere memorabili e imperdibili, perché proprio Salvador Dalí è il vero manifesto del Surrealismo, un movimento mai morto e che ancora oggi trova luce in nuovi artisti e soprattutto nel cinema, a cominciare da Alejandro Jodorowsky, per non dire di Federico Fellini e di David Cronenberg. Nella mostra si parla anche dei debiti con il Surrealismo di Sir Alfred Hitchcock, e non è poco per un movimento che al suo nascere annunciava: “Siamo alla vigilia di una rivoluzione – Surrealismo. Puoi partecipare”, firmato: L'Ufficio centrale di ricerca surrealista, 1924.
Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam
André Breton, Manifeste du surréalisme. Poisson soluble - Éditions du Sagittaire Paris 1924