A cinquant’anni dalla morte del grande artista natio di Malaga, improvvisiamo un’intervista impossibile che ne ripercorre (senza pretese) vita e miracoli
«Parliamoci chiaro, obiettivamente, che cosa si può scrivere ancora su di lei?». Gli occhi piantati nei miei ridono e in tutta risposta: «La giornalista è lei. Si faccia coraggio signorina».
Scrivere di Pablo Picasso equivale a trattare i massimi sistemi, perché è uno di quelli che stabilisce, nel corso della storia dell’arte, un prima e un dopo di lui. A cinquant’anni dalla sua morte (anniversario che cade oggi; morì l’8 aprile 1973, a 91 anni) è esercizio difficile trovare qualcosa d’inedito da scrivere, a meno di non essere un esperto. Visto che questo non è il caso, per evitare la trappola del “compitino” intavolo un’intervista impossibile con l’enfant prodige che ha rivoluzionato l’arte del XX secolo. Insomma mi prendo la libertà di una licenza narrativa, e pure giornalistica, che travalica spazio e tempo per ripercorrerne vita e arte: senza la presunzione di essere esaustiva e d’insegnare niente a nessuno, ma con un grande sforzo immaginativo; che chiedo anche ai lettori.
Siamo nella Francia meridionale. Fra Cannes e Antibes c’è il comune di Vallauris, dove per anni Picasso ha dimorato e lavorato instancabilmente nel suo atelier. Nella regione delle Alpi Marittime francesi – ad Antibes prima, a Vallauris poi –, «mi sono stabilito dopo la guerra, avevo bisogno di scappare da Parigi. Mi opprimeva», contestualizza sbuffando una nuvola di fumo. Aveva 64 anni (era nato a Malaga il 25 ottobre 1881) e da tempo era una celebrità dell’arte per il suo essere pittore, scultore e litografo. Dopo i Periodi Blu e Rosa, con l’artista Georges Braque ha iniziato il Cubismo, che rompe il concetto di spazio pittorico basato sulla prospettiva, distaccandosi dalla pittura dal vero. L’artista non vuole più suggerire la tridimensionalità dell’oggetto, ma cerca di rappresentarlo in uno spazio che contempla più angolazioni possibili, facendo capo a forme primarie. Insomma, Picasso ha scomposto l’arte per poi ricostruirla.
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Nel suo atelier a Vallauris
Lavoratore instancabile fino alla fine, nella sua affannosa ricerca, l’andaluso ha realizzato oltre ventimila opere fra quadri, disegni, sculture, incisioni, ceramiche. Gran disegnatore sin dall’infanzia, ricorda che «a quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino», riferendosi alla stilizzazione estrema nel disegno ravvisabile nel confronto fra gli inizi e la maturità. Infanzia e adolescenza le vive fra Andalusia, Galizia, Catalogna e Madrid, dove è stato ammesso all’Accademia Reale San Fernando. «Fuori dalla scuola, che era una perdita di tempo, ho studiato i grandi artisti spagnoli – Velázquez, El Greco, Zurbarán, Goya –, ma anche i francesi Toulouse-Lautrec e Cézanne». Così come Van Gogh, Munch: «Sa com’è… gli artisti mediocri copiano, i geni rubano», esclama divertito.
Il primo viaggio a Parigi (nel 1900) segna una svolta, lì «c’erano veri maestri dappertutto». Nella capitale francese, il pittore fa incontri decisivi, fra gli altri con il già menzionato Braque, Matisse (amico e “rivale” in arte), Vollard, Apollinaire, Max Jacob, Cocteau, Aragon, Malraux.
Jacqueline Roque, sua seconda moglie, si riferiva a lei con l’appellativo ‘il sole’; devo rivolgermi anche io così?
Se fa così, però, iniziamo male… Mi chiami pure Pablo.
Bene, Pablo, le chiedo di fare un tuffo nel passato. Fin da bambino era dotato per il disegno. Ricorda la prima opera?
Il primo quadretto lo dipinsi a otto anni e raffigura la corrida. Amo la tauromachia e non è stata la sola volta che l’ho dipinta. A vedere la lotta fra tori e toreri mi portava mio padre José. La sua figura ha stimolato la mia attitudine creativa: anche lui si dedicava a disegno e pittura ed è stato pure docente di disegno alla Scuola di belle arti a La Coruña. Insomma mi ha dato una bella impronta… se non ci fosse stato lui, magari sarei diventato un guantaio, invece ho iniziato a copiare dal vero. Del resto, mia mamma Maria lo diceva sempre che le mie prime parole sono state “piz, piz” che è abbreviazione di lapíz.
A inizio Novecento va a Parigi. Allora il suo lavoro era pervaso dal blu, da cui il nome di uno dei suoi Periodi. Era uno stato d’animo?
È stato pensando al mio amico Casagemas – il suo suicidio mi ha devastato – che mi sono messo a dipingere con il blu, fino a circa il 1904, quando mi sono stabilito a Parigi. Carlos, insieme a Pallarès, è stato il mio compagno di viaggio, per tanto tempo abbiamo vissuto insieme a Montmartre. La chiamavano vita bohème, io so solo che pativo la fame. Vede, è stato un periodo cupo, ombroso, livido, ma è stato in quel frangente che mi sono riempito gli occhi dei grandi capolavori.
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‘La tragedia’ (1903), una delle opere del Periodo Blu
Nel 1905 conosce Matisse, gli Stein (Leo e Gertrude). Ma è anche l’anno in cui irrompe il colore, il rosa. Che cosa è cambiato?
Stiamo facendo un ripasso di storia dell’arte? Queste cose son scritte e riscritte. Comunque, diciamo che il momento di stenti e tristezze stava finendo, lasciando spazio a qualcosa di nuovo, anche nella mia pittura. Avevano forte ascendenza, a quel tempo, la scultura greca e classica, ma anche quella primitiva e iberica preromana. Ricordo che con Gertrude abbiamo fatto ottanta sedute per un suo ritratto: un lavoro lungo, ma è stata la mia prima vera mecenate e quindi ci tenevo, anche se alla fine tutti dicevano che non le somigliasse.
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‘Gertrude Stein’, 1905-1906
Continuiamo il ripasso: il 1907 è un anno di svolta, arrivano ‘Les Demoiselles d’Avignon’. Che cosa la spinse in quella direzione?
Mi è sempre piaciuto sperimentare e, dopo un soggiorno a Gósol (me lo ricordo bene perché Fernande e io siamo dovuti scappare per un’epidemia di tifo), ho iniziato a disegnare non curandomi delle proporzioni, realizzando figure più scultoree: questo forse perché ero rimasto profondamente affascinato dall’arte africana, che dava spunti per nuovi linguaggi espressivi. Era inebriante e le signorine d’Avignone sono nate faticosamente, ma – lo racconta la storia – hanno segnato l’arte venuta dopo…
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‘Les demoiselles d’Avignon’, 1907
… erano gli anni Dieci, quelli del Cubismo, che inizialmente non è stato accolto bene…
Il nuovo fa sempre paura, ma Braque e io siamo stati geniali, altro non si può dire, perché dopo è cambiato tutto. Ricordo che in un primo tempo ho lavorato molto a pezzi come ‘La donna seduta’, ‘Ragazza con mandolino’, ma anche alle nature morte con varie bottiglie. Mi sono provato anche nella scultura con la ‘Chitarra’.
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‘L’aficionado’, 1912
Fra le sue opere più celebri e di forte valenza civica c’è ‘Guernica’, ancora molto attuale…
Su questa tela girano varie congetture. L’ho dipinta dopo il bombardamento della cittadina basca delle truppe nazionaliste del caudillo Franco, nel 1937. Su questa tela c’è però un aneddoto tragicomico: ero nel mio appartamento a Parigi e mi ha fatto visita questo Otto Abetz, un alto ufficiale nazista, un ambasciatore forse, che vedendo una foto della grande tela mi chiese se avessi fatto io quell’orrore. Che coraggio, quel tipo. Gli risposi piccato che era stata opera loro. Ora cambiamo registro però…
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‘Guernica’ 1937
Si racconta che soffrisse di peniafobia e che, per esempio, al ristornate piuttosto che pagare il conto, faceva degli schizzi sulle ricevute…
Certo che avevo paura di diventare povero, a Parigi ho fatto la fame e non ne ho mai avuto nostalgia.
Fernande, Eva, Olga, Dora, Françoise, Jacqueline… Nella sua vita ha avuto molte donne, lo dico senza biasimo...
Ma con il mio lavoro esattamente che cosa c’entrano, se non per il fatto che sono state splendide muse?
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Nella vasca ritratto da David Douglas Duncan
In occasione della ricorrenza, ecco un breve elenco di cose da vedere e leggere per approfondire la figura dell’artista.
Chi l’ha conosciuto e ne ha condiviso un pezzo di vita, non di rado lo ha definito un tiranno superstizioso ed egoista, un burbero dal carattere difficile che faceva soffrire chi gli stava intorno, come la pittrice e scrittrice Françoise Gilot che è stata una sua amante, fermamente contraria alla definizione di “musa”. Gilot, che tuttora vive negli Stati Uniti, ha pubblicato nel 1964 ‘Living with Picasso’. Un punto di vista diverso è anche quello raccontato in ‘Grand-père’ da Marina Picasso. Lei è la nipote ed ereditiera dell’artista, figlia di Paulo, che in un’intervista ha dichiarato che il nonno “ha lasciato dietro di sé un cimitero”. Di là di questo, c’è la biografia ‘Picasso’ scritta da Patrick O’Brian che lo ha seguito per una ventina di anni, pubblicando una prima edizione nel 1976, in italiano nel 1989.
Sul fronte mostre d’anniversario, nel mondo, se ne contano una quarantina; ne segnalo un paio: la Fondazione Beyeler di Basilea dal 19 febbraio scorso e fino al 1º maggio prossimo ospita ‘Picasso. Artista e modello - Ultimi quadri’. La vicina libreria Art on… paper di Paradiso allestisce dal canto suo un’esposizione dedicata ai libri d’arte del genio spagnolo, proponendone una selezione dal 4 al 20 maggio.
Per gli amanti delle immagini di movimento, c’è il film ‘Surviving Picasso’ (1996) di James Ivory con Anthony Hopkins nei panni del pittore andaluso. Fra i documentari: ‘Il mistero di Picasso’ (1956) diretto da Henri-Georges Clouzot con la collaborazione di Claude Renoir, pronipote di Pierre-Auguste Renoir e, nei panni di se stesso, Pablo.
In chiusura, “Quelle idée de peindre une pomme/ dit Picasso/ et Picasso mange la pomme/ et la pomme lui dit Merci”. Versi della poesia ‘Promenade de Picasso’ di Jacques Prévert.