Intervista allo scrittore Martino Giovanettina, che ha pubblicato un libro sul pittore e curatore di mostre locarnese
Pierre Casè, 16 febbraio 1944 - 24 agosto 2022. Tra le due date un trattino che rappresenta un’intera esistenza. Una vita che vale la pena di raccontare. E lo ha fatto con maestria Martino Giovanettina, nel libro biografico dedicato all’artista nato a Locarno, ma valmaggese per scelta e indole.
"Pierre Casè, cronache da una vita", edito da Agenzia Kay, è stato stampato lo scorso mese di maggio da Salvioni arti grafiche Sa, Bellinzona. Non è solo un omaggio artistico, ma un lungo dialogo tra l’autore e il pittore, che sono riusciti a creare un’intesa – ed emerge chiaramente dal testo – tra chi predilige l’uso della parola e chi dell’immagine. Ne parliamo con Giovanettina a poco più di un mese dalla scomparsa di Casè.
Com’è nata l’idea del libro?
«Leggendo i cataloghi che accompagnavano le sue mostre, soprattutto le tre a Venezia. Cataloghi di gran qualità grafica e fotografica, con dotte e interessanti riflessioni sul suo lavoro. Dopo averli letti mi chiedevo: quanto manca di Pierre in questi lavori patinati? Per anni la risposta è rimasta sospesa. Poi un giorno ne abbiamo parlato. Lui era molto interessato a lasciare anche una traccia diversa da quella "ufficiale". Io a raccontare la storia di un uomo che ai miei occhi aveva un merito essenziale: per decenni ha dialogato con il tramonto e poi con le memorie della civiltà contadina affidandosi a un linguaggio artistico innovativo e inconsueto, sacralizzandone e ricollocandone gli oggetti d’uso quotidiano. E tutto questo – anche se a volte, specialmente negli ultimi anni, poteva sembrare il contrario – senza diventare un solone nostalgico e reazionario, che rincorreva tempi che vanno amati ma non rimpianti. Il libro è nato così, da due esigenze, forse urgenze, che combaciavano».
Su come si sono svolte le riunioni fra Casè e il suo biografo "rubiamo" un passaggio del volume (tra l’altro ricco di fotografie, scattate da Sara Giovanettina): "I nostri molti incontri sono terminati, il libro si avvia alla pubblicazione. Per anni siamo stati uno l’analista dell’altro, amici e nemici, spesso anche vicini, molto vicini nelle emozioni di una scoperta, di un ricordo comune, di uno stato d’animo fraterno od opposto. Eppure non sono riuscito a scrivere la biografia che credevo di scrivere, ho scoperto che per farlo è mancato il distacco, la forza mia di stanarlo su temi privati che non sono nelle sue tele e nel suo percorso pubblico e che sembra aver chiuso in un’altra dimensione, inaccessibile forse anche a lui stesso. Quanto abbia sacrificato a questa ostinata e monolitica immagine dell’artista a tutti i costi non è dato sapere".
E sempre Giovanettina ci dà una definizione precisa del suo lavoro: "Questo piccolo libro è dunque un affettuoso dialogo con un uomo che ha insegnato alla mia generazione e a quelle successive che la sabbia del fiume, una lamiera arrugginita, la cenere del camino, la cera delle api possono significare e diventare qualcosa che va oltre l’uso passato e l’apparenza, e per farlo si è servito, come fosse un decodificatore, dello strumento dell’informale materico".
Casè "con i suoi occhiali rotondi, una pettorina o una blusa blu sotto a un grembiulone nero che sembra una tavolozza (e quando fa freddo una papalina rossa portata giusta), smentisce il proverbio secondo cui l’abito non fa il monaco". La sua crescita come artista è andata di pari passo con la sua crescita come uomo, con i tanti ostacoli che l’esistenza ha messo sul suo cammino.
Com’è riuscito a creare un dialogo così profondo, fatto di parole, con un artista abituato a comunicare con le immagini?
«Pierre amava la parola. Con lui, stabilita una soglia di reciprocità, superata una sorta di dogana, era possibile parlare di quasi tutto e a fondo. Mentre il lavoro proseguiva ci siamo poi accorti di quanto le nostre generazioni confinassero e le nostre storie avessero parecchi punti di contatto. Era chiaro fin dall’inizio che della sua dimensione artistica in senso stretto avrei scritto poco. Il nostro sarebbe stato un lavoro di parole, cercando per quanto possibile il senso profondo di un’esistenza che l’aveva portato a diventare non "solo" un pittore. Casè è stato un personaggio dalle molte facce, iconico, carismatico, capace di conferire a una situazione o a un reperto un’aura emozionale che travalica le consuete categorie di interpretazione».
Nel libro la descrizione del luogo di lavoro di Casè a Maggia è ricca di particolari e permette al lettore di entrarvi per dare una sbirciata. Un atelier definito "una fabbrica di emozioni, di nozioni, di percorsi". E al piano superiore, invece, la collezione privata: "Ci sono quadri ovunque, esposti, appoggiati, impacchettati come se stessero per andarsene da qualche parte".
Narrare la storia di una personalità che ha lasciato un’impronta così forte – il lavoro di Casè va oltre la sua arte: è stato insegnante allo Csia di Lugano, ma anche direttore di Casa Rusca a Locarno e curatore di mostre – è una bella responsabilità.
Come si è svolto il percorso creativo?
«Ci siamo incontrati un centinaio di volte. Non ho preso appunti, ho solo registrato con il cellulare le nostre conversazioni. Lui mi chiamava scriba, io sbianchin. L’ho visto ridere, piangere, arrabbiarsi, zittirsi fulminato da un brutto ricordo, l’ho visto grande, piccolo, stanco, malato, poi improvvisamente rinascere. Mano a mano la confidenza e la fiducia crescevano. Alla fine, dato che amici lo eravamo già, siamo diventati qualcosa d’altro, qualcosa di più. L’ho visto, incosciente, poche ore prima che morisse. Lì ho capito che cos’è stato questo libro: la straordinaria fortuna d’un incontro andato oltre le premesse iniziali. Cento appuntamenti alle dieci di mattina che un po’ mi hanno cambiato la vita».
In conclusione riprendiamo quella che è la domanda conclusiva che Giovanettina ha posto a Casè: "Che direbbe tuo padre della vita che hai costruito?". Guarda in silenzio le fiamme del camino che bruciano ignare legna di faggio, poi risponde: «M’è successo più volte di pensare che sarebbe potuto entrare in atelier. L’avrei abbracciato o non so cosa. Se fossi riuscito a parlare, ma non ne sono certo, forse gli avrei detto: eccomi qui Luigi, io ho provato a fare questo, a essere così».