intervista

Buon compleanno, architetto

In occasione dei suoi ottant’anni abbiamo incontrato Mario Botta a Mendrisio. Fra casualità e fortune inattese, racconta come è nato nel mestiere.

Mario Botta è nato a Mendrisio il 1° aprile 1943
(Keystone/Pablo Gianinazzi)
1 aprile 2023
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Costruire è di per sé un atto sacro, è un’azione che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura; la storia dell’architettura è la storia di queste trasformazioni. [M. Botta]

Mario nasce a Mendrisio di giovedì, è il primo aprile 1943. Le prime pagine di quotidiani e periodici ticinesi di allora non riferiscono di certo della notizia, a tenere banco sono i dispacci dai fronti della Seconda guerra mondiale (sulle cui macerie si sarebbe poi ricostruito). Mettendo da parte la grande Storia, ci vorranno alcuni anni prima che Mario diventi Mario Botta, celebre architetto ticinese, la cui fama ha travalicato i confini andando ben più lontano della ramina fuori casa. Diventando storia, con la maiuscola.

Mendrisio, marzo 2023

Via Beroldingen 26, a Mendrisio, la si raggiunge seguendo le rotaie, in direzione nord. Tuttavia, l’agitazione mi fa allungare il giro (camminare mi aiuta a pensare; ma sto divagando) e arrivo al suo studio – una vecchia fabbrica – poco prima dell’orario stabilito per l’intervista. Occhiali tondi in equilibrio sull’arcata sopracciliare, contornata da una vaporosa chioma bianca e ondosa; la matita rossa in una mano e maglioncino, color senape, sopra la camicia. L’incontro con un affabile Mario Botta, in occasione del compimento dei suoi ottant’anni, comincia così.


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L’essenzialità del disegno

Architetto, partiamo dagli esordi: perché l’architettura? Era il suo sogno di bambino?

Non precisamente. Non ero nato per fare l’architetto, è stato un caso. Da bambino – sono l’ultimo della nidiata – ero molto gracile: nel ’43, nascere all’ottavo mese di gravidanza poteva essere pericoloso e quindi mia madre, mia nonna e le mie zie mi coccolavano, mi proteggevano. Sono cresciuto perciò con i giochi più semplici. E disegnavo.

Come è andata?

Provengo dal mestiere e questa è stata la mia fortuna. Ho smesso di studiare al ginnasio, perché a scuola ci andavo malvolentieri. Io volevo fare. A quindici anni ho visto che tracciando una linea, quella aveva il potenziale di diventare un muro. Mi sono appassionato e ho cominciato l’apprendistato di disegnatore edile, lavorando nello studio di architettura di Tita Carloni e Luigi Camenisch, a Lugano. Il mio tirocinio l’ho fatto di corsa, studiando molto anche per conto mio, cercando di accorciare i tempi e potermi iscrivere all’Istituto universitario di architettura di Venezia [Iuav, dove si laurea nel 1969, ndr], dopo il liceo artistico frequentato a Milano [fra il 1961 e il 1964]. Insomma, una serie di circostanze ha permesso alla mia gracilità di coltivare il disegno che sarebbe poi diventato la mia vita.

A Venezia, negli anni Sessanta, entra in contatto fra gli altri con Le Corbusier, Carlo Scarpa (relatore della sua tesi insieme a Giuseppe Mazzariol), Louis Kahn. Quale ricordo ha di quel periodo e che cosa le ha dato?

È stata una fortuna inattesa, una di quelle che una volta nella vita capita a tutti. A Venezia, mi sono ritrovato in un crogiolo di presenze straordinarie, figure messianiche: Carlo Scarpa, Le Corbusier e poi Louis I. Kahn. È stato un momento straordinario della mia formazione. Corbù, che all’epoca era già un mostro di bravura, mi aveva illuminato e il suo arrivo a Venezia per il progetto dell’ospedale (nel 1964, uno dei capisaldi della sua forma di pensiero) è stato una fortuna. Ho avuto l’opportunità di lavorare nel suo studio con i suoi collaboratori in Italia, dove è passata la storia dell’architettura moderna.

Dopo l’Italia, alla fine degli anni Sessanta, fa ritorno a Lugano dove ha aperto il suo studio (dal 2011 con sede a Mendrisio).
Perché tornare?

Ho fatto ritorno a malincuore: quella rinuncia è un nodo che mi è rimasto. L’ultimo anno a Venezia, prima del diploma, avevo lavorato con Kahn, per me il messia, una figura mai più trovata. Mi si era dunque presentata una straordinaria opportunità: lavorare con lui a Dacca, in Bangladesh, per la progettazione del parlamento. A malincuore gli ho detto di no e sono tornato qui, perché avevo ancora i ricordi del mio apprendistato e del piacere del lavoro diretto. Per questo sono tornato, per lavorare con le mie forze. Dopo cinque anni di teoria per me era prioritario entrare di forza nel cuore del mestiere e confrontarmi con la dura realtà. All’epoca non c’erano lavori e nei primi anni ho iniziato progettando case per amici e amici di amici. Case che sono state però la mia fortuna. Ho quindi avuto la possibilità di partecipare ad alcuni concorsi anche fuori della Svizzera, come quello per il Teatro e centro culturale di Chambery, in Francia, da lì sono arrivati altri lavori.

Oltre ad aver rinunciato a lavorare con Kahn, ha altri rimpianti?

Non credo di avere rimpianti, perché ho sempre potuto decidere coscientemente. Sapevo che l’esperienza con lui era qualcosa di diverso: so cosa ho perso, ma l’attrazione per i luoghi della mia nascita, per la mia terra era più forte. Sono contento di non essere andato, nonostante il rincrescimento, perché il territorio della memoria mi ha permesso di coltivare aspetti che credo che in questo momento facciano da anticorpi alla follia del moderno. L’architetto lavora soprattutto sul territorio della memoria: vede il passato come un amico, una presenza che nel momento di crisi dà risorse per una creatività nuova, per trovare altri valori del presente.

Architetto e docente, lei è anche divulgatore. Perché è essenziale allargare il dibattito culturale sulla disciplina, affinché si rompa la barriera e si vada oltre gli addetti ai lavori?

Perché lo spazio di vita dell’uomo è l’architettura, che non è altro che la sua organizzazione. L’architettura segna anche la storia del proprio tempo [del qui e adesso], è uno specchio, talvolta impietoso, della società. La distanza, la reticenza di parte dell’opinione pubblica forse è dovuta ai cattivi tempi, identificando l’architettura nella speculazione edilizia, nella non consapevolezza degli equilibri ambientali. L’architettura si presta molto anche alle degenerazioni della vita collettiva: non è che esprima sempre il meglio.

Guardando alle spalle: fra ieri e oggi, come è cambiato il suo mestiere?

È cambiato moltissimo, soprattutto da tre anni a questa parte. La pandemia ci ha detto che siamo fragili e che possiamo anche scomparire con facilità. A quella si sono accompagnati il cambiamento climatico (già in atto: prima della morte dell’uomo, abbiamo visto quella del mondo con lo scioglimento dei ghiacciai), la barbarie della guerra, la crisi energetica, la minaccia atomica. Un accumulo di avvenimenti di cui sento ancora le conseguenze. Però, questa condizione è propria della nostra generazione, non credo ce ne siano state altre nella storia che abbiano vissuto un fallimento dei valori così intenso e così preciso per un territorio così immenso: il mondo intero.

Lavora da oltre sessant’anni: cosa la spinge ogni mattina a venire qui in studio?

[Ride] Le faccio un esempio: quando ho qualche malanno, poter avere la matita in mano e andare al tavolo da lavoro mi guarisce. Il lavoro per me è la più grande medicina che ci sia, una terapia. Mi dà risorse fisiche e nutrimento per lo spirito; sono altre le cose che mi stancano. Poi il pensiero creativo mantiene giovani.

Infine, una curiosità: l’opera d’arte che più ammira?

Un’opera preferita non saprei, la prossima che devo incontrare, penso. Ci sono però elementi cardine come ‘Guernica’ di Picasso, che è un prodigio. Un mito che non ho incontrato, anche se avrei potuto quando ero in Francia, ma non ho mai osato. O l’opera di Paul Klee e Alberto Giacometti, in cui mi sembra di riconoscermi nelle vocazioni maturate nell’infanzia, come segni premonitori di un’immagine che sapesse parlare del tutto. I creativi hanno questa capacità: andare al di là del loro tempo storico, dando chiavi di lettura che sono universali.


Keystone/Pablo Gianinazzi
Al lavoro

Opere

‘Un debito verso il passato’

Una delle sue grandi opere, in senso lato, è senza dubbio l’Accademia di architettura di Mendrisio, di cui è fra gli ideatori negli anni Novanta. Una scuola «nata in circostanze propizie e irripetibili, perché erano maturate condizioni storiche e politiche». Sulla scorta della credibilità guadagnata presso la politica federale con la tenda per il Settecentesimo della Confederazione (a Bellinzona), il Ticino si è fatto avanti “rivendicando” la sua università, approfittando del momento di crisi del Politecnico di Zurigo e la difficile pianificazione di quello milanese. Inoltre, «si sentiva, in queste terre, un grande debito di riconoscenza verso il passato [si pensi a Fontana e Borromini, ndr] e andava riconosciuta questa identità del territorio». In seguito è stata fatta «una grande riflessione sull’insegnamento dell’architettura, sul profilo che si voleva dare: per me era il momento di fare una scuola con un indirizzo umanistico, per riportare al centro la figura cardine: l’uomo come protagonista».


Keystone
La tenda progettata in occasione del Settecentesimo della Confederazione e costruita a Bellinzona, nel 1991

Le altre

Chiesa San Giovanni Battista a Mogno, Cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro. E ancora: Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Museo d’arte moderna Bechtler nella Carolina del Nord, Centro termale Fortyseven° a Baden, Fiore di pietra sul Monte Generoso, ristrutturazione del Teatro alla Scala di Milano, Teatro dell’architettura di Mendrisio. In oltre sessant’anni di carriera, Botta si è provato in varie tipologie edilizie (sopraccitate in ordine sparso e incompleto). Iniziando dalla progettazione di case unifamiliari in Ticino, l’architetto ha elaborato scuole, banche, edifici amministrativi, biblioteche, musei ed edifici di culto sparsi in tutto il mondo, con forme semplici e simmetriche, espresse da materiali naturali, dando grande rilevanza a luce, ordine, territorio.

La sua però è un’attività poliedrica che contempla anche il design (per Artemide, Pierre Junod, Munari eccetera), la realizzazione di scenografie per il teatro e la cura di mostre dedicate ad artisti quali Carlo Scarpa, Friedrich Dürrenmatt, Andrea Mantegna, Tiziano, Antonio Ligabue, Giuliano Vangi. Al capitolo esposizioni vanno aggiunte quelle a lui dedicate sin dagli anni Settanta in vari Paesi. Per approfondimenti circa principi, opere, premi rimando al sito www.botta.ch.

Chiudiamo con le parole dello storico dell’arte Claudio Strinati: “L’architetto dà forma a uno spazio. Non lo stravolge, non lo modifica arbitrariamente ma, rispettandolo e comprendendolo, riesce a creare lo spazio dentro il quale il destinatario potrà abitare”. Nella sua visione, “Botta costruisce per metterci a nostro agio, forte del convincimento che il costruito rechi comunque in sé il segno del sacro che ristora e tranquillizza”. Egli è “un artista saggio, anzi azzarderei uno dei grandi saggi del nostro tempo, che non predica, non emette proclami, non si manifesta clamorosamente, non cerca la spettacolarizzazione del suo fare”. (Virgolettati tratti dal saggio pubblicato nel catalogo ‘Mario Botta. Sacro e profano’, 2022).


Keystone
La chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, 1986-1998