La mostra ‘Chaosmos’ al Museo d’Arte di Mendrisio fino al 4 settembre, in concomitanza con ‘Dallo spazio al tempo’ di Gianfredo Camesi
A pagina 22 di un volume pubblicato nel 2007 Mounira Khemir scrive, in francese, del lavoro di Davide Cascio: «Il suo motore non si trova negli effluvi di una estetica relazionale in voga dagli anni 1990, della quale la sola vacuità alimenta talvolta la postura». Consapevole di essere di fronte a un puro caso, sono colpito dall’utilizzo del concetto di vacuité, così importante nel lavoro di Gianfredo Camesi da esserne un titolo. Non credo che Mounira Khemir ne sia al corrente ma Gianfredo Camesi è presente al Museo di Mendrisio in concomitanza con Davide Cascio e la compresenza è una occasione felice per affrontare e relazionarsi con il lavoro di entrambi gli artisti, la cui complessità è profonda e per certi aspetti estrema.
Entrambi ponti di collegamento tra la cultura ticinese e le esperienze di altri luoghi del mondo, le due personalità appartengono a generazioni diverse e promuovono un atteggiamento nei confronti della pratica artistica radicalmente distinto. Lo vediamo percorrendo le sale del museo. La sezione dedicata a Gianfredo Camesi è ordinata, composta, seriale, lineare così come recita il titolo: Dallo spazio al tempo, in un flusso che si impregna di panismo. La sezione allestita da Davide Cascio, per lo più direttamente nel museo insieme ai dipendenti di quella istituzione, ci propone una sensazione di deflagrazione, di un tentativo di ricomporre in unità qualcosa che si è sparpagliato e infatti il titolo recita Chaosmos.
Torniamo al concetto di vacuité, fondante nel lavoro di Gianfredo Camesi mentre, come dice Mounira Khemir, quello di Davide Cascio ne è un distanziamento. Ciò in effetti succede perché, anche nella presentazione di Chaosmos, egli ci mostra il risultato di un impegno analitico nei confronti dell’immaginifico che ha inquinato più lustri della nostra storia recente. Mentre Camesi impiega il proprio virtuosismo per, mentre astrae e minimalizza, densificare l’immagine prodotta caricandola di esperienzialità, gestualità, attività pittorica e riconducendola a equilibrio, Davide Cascio ha una postura analitica, critica e redistribuiva nei confronti dell’immagine e dell’immaginazione.
Egli attinge al proprio, che poi è anche il nostro, patrimonio immaginifico o, meglio, incorpora e si fa carico di una quantità innumerevole di frammenti, esperienze e contenuti che filtra attraverso la propria soggettività. Utilizzo il termine immaginifico per due motivi: perché si tratta, sì, anche di materiale iconografico, ma soprattutto di materiale che crea immaginario; perché l’ideologia immaginifica è stata una sbornia che ha connotato gli ultimi decenni di storia. Rispetto a tale realtà, Davide Cascio sembra avere un atteggiamento critico, analitico, redistributivo e rigenerativo.
Egli cioè analizza criticamente la realtà referente per ridistribuirla nel quadro dei significati possibili e rigenerare questo in una nuova prospettiva espressiva e significante. Costruisce un archivio popolato di fonti immaginifiche, associa alle fonti visive quelle letterarie e le esperienze storiche (anche della storia dell’arte e del periodo umanistico e rinascimentale, quando per esempio in altre occasioni ha ricostruito lo studiolo di San Gerolamo; e così le esperienze vissute nell’arte del XX secolo). Nell’archivio da lui ricostruito, rimette in gioco il patrimonio raccolto che diventa una fonte e si impegna a trasferirlo in risultati formali. Per riprendere ancora le parole di Mounira Khemir, svolge la funzione di «poeta della prospettiva in cerca di immagini».
Dal punto di vista procedurale, «si tuffa in un deserto astrattistico senza dimenticare che il deserto ha il dono della fonte»; «l’utopia è la proposta di un luogo giusto e bello che possa offrire l’opportunità di una condivisione del sensibile».
In tal modo, con questo tuffo, questo sprofondamento in un abisso documentale e storico, egli sperimenta una linearità verticale, di scavo filologico in un sistema di fonti che sono terreno di riferimento, radice del processo espressivo, componenti linguistiche della sua poetica e tasselli dei manufatti prodotti (nei collages, per esempio). Di ciò che viene generato dal lavoro in profondità della sua procedura artistica noi abbiamo accesso a una piccola parte: il manufatto che vediamo in mostra e il sistema di riferimenti, pubblicato nella monografia che accompagna un progetto espositivo.
Molto, nondimeno, si nasconde o occulta nei meandri del processo e noi fruitori ci troviamo immersi in una misteriosità impegnativa e ci sentiamo lasciati alla nostra responsabilità e disponibilità ad accettare quelle modalità espressive; facciamo fatica a comprendere il significato effettivo, in senso narrativo e in senso concettuale. Incontriamo, qui, una componente sacerdotale del lavoro dell’artista che ci appare enormemente concentrato nel proprio officio e che non è in grado di aiutarci a comprendere, o meglio a leggere in chiaro, per esempio, il funzionamento operativo dei libri sparpagliati perché caduti da una libreria dalla quale ci sembra che non possano cadere perché non possono essere stati appoggiati, poiché sembrano mancare gli scaffali, salvo poi verificare che gli scaffali ci sono e notare che anche in questo caso la distribuzione dei volumi negli spazi risponde a una sensibilità di ordine grafico.
È chaosmos anche per noi e qui di nuovo ci aiuta il confronto così a distanza con il lavoro di Gianfredo Camesi. Entrambi gli artisti vivono uno stretto legame con il testo; entrambi producono un’arte esperienziale; entrambi hanno una sensibilità grafica e sono sempre impegnati a valorizzare i dettagli intermediatici del lavoro (alcuni esempi: nel caso di Camesi la pratica calligrafica o l’impronta dei piedi o la nudità; nel caso di Cascio, la scelta tipografica o la distribuzione dei contenuti nelle pubblicazioni).
Mentre Gianfredo Camesi sente il bisogno di condurci per mano fino all’impatto estetico del risultato del suo lavoro, Davide Cascio sente il bisogno di lasciarci liberi e responsabili di costruire la nostra fruizione di ciò che egli ha operato e creato, concentrato a massimizzare la propria libertà e responsabilità.