Al Masi apre la mostra "grandi quadri miei con piccoli quadri di altri", in cui l'artista tedesco unisce sue creazioni a opere da lui acquistate
Per un fortunato imprevisto, entrando nella sala per la visita in anteprima della mostra che il Museo d’arte della Svizzera italiana dedica ad Albert Oehlen ho preso solo il foglio di sala con l’elenco e le biografie degli artisti, lasciando quello con la mappa e l’elenco delle opere e che sostituisce i cartellini che sempre più musei tolgono. Un piccolo errore, dovuto al fatto che i due pieghevoli hanno la copertina assolutamente identica, che mi ha portato a un primo giro per le sale ignorando completamente se l’opera che avevo davanti era una di quelle di Oehlen o, al contrario, una di quelle che l’artista tedesco ha collezionato e che, con una certa ironia, ha deciso di esporre insieme ai suoi lavori in questa mostra intitolata “grandi quadri miei con piccoli quadri di altri”. Ne è risultato un curioso girovagare nell’arte contemporanea, cercando rimandi e assonanze tra le opere e immaginando le ragioni di accostamenti e contrapposizioni, ma alla fine anche per una liberatoria rinuncia alle categorie estetiche, con il piacere di guardare l’arte senza saperne niente o quasi. “Dialogo libero tra opere e artisti” lo definirà, durante la conferenza stampa, la curatrice Francesca Benini, giustificando la scelta di non mettere didascalie affidandosi a (due: fate attenzione) fogli di sala.
Scoprire quali opere ha un artista nella propria collezione è un po’ come curiosare nelle biblioteche degli scrittori: una preziosa fonte di informazioni per gli addetti ai lavori non priva di interesse anche per i semplici appassionati. Con questa esposizione, al Lac da domani e fino al 20 febbraio, si va oltre perché Albert Oehlen è certo l’artista autore di una mezza dozzina dei lavori esposti, è certo il collezionista che ha cercato e acquistato le altre opere in mostra, ma è anche il curatore: ha scelto le opere e ha rivisto (sospettiamo: stravolto) le proposte di allestimento di Benini. L’esposizione sembra insomma avere un carattere autobiografico, un racconto di sé stessi interessante perché – come ha spiegato sempre Benini in conferenza stampa – parliamo di un artista riservato ed elusivo. Nato nel 1954 in Germania, Albert Oehlen ha studiato ad Amburgo mettendosi presto in luce nella scena artistica di Berlino e Colonia, inserendosi insieme a Martin Kippenberger e Werner Büttner nella cosiddetta ‘Junge Wilde’. Alla fine degli anni Ottanta decide di trasferirsi in Spagna dove abbandona la figurazione per l’astrazione, o meglio per una “pittura post-non-figurativa” come la definisce egli stesso. “Oehlen sembra attuare il processo di decostruzione anche al concetto di arte astratta – scrive Francesca Benini nel catalogo –, mirando a conseguire una sempre maggiore autonomia con la quale muoversi e individuare nuove risorse visive, ma rimettendo poi tutto continuamente in discussione”.
In poche parole: un artista di non facile lettura e allora le opere di altri artisti, da lui comprate e selezionate, possono essere di aiuto a scoprire chi è Albert Oehlen. O quantomeno a darci una mostra particolare e, come accennato, ironica. Iniziando dal titolo, delicatamente falso visto che i quadri grandi – sia nel senso della dimensione, sia dell’importanza – non sono solo quelli di Oehlen. C’è poi il gioco di rimandi: due delle sue opere richiamano esplicitamente elementi di altri due quadri, ovviamente trasfigurati profondamente. In un caso, ha raccontato Benini, per una questione curiosa e rappresentativa del personaggio: la trattativa con un gallerista per un quadro di Richard Artschwager era in stallo e, temendo di non poter più acquistare quell’opera, Oehlen ha semplicemente deciso di rifarla prendendo e trasformando le figure rappresentate.
Ma il gusto per l’ironia, e una provocazione solo apparentemente fine a se stessa, la si vede anche nella scelta delle opere di Oehlen collezionista, tra cui spiccano l’irriverente Paul McCarthy, l’iperrealista Duane Hanson e ancora le opere di Rebecca Warren e Willem de Kooning.