Dal museo allo spazio aperto e viceversa: sguardi sulla mostra antologica la Museo d’Arte Moderna di Ascona
Chi ama le grandi antologiche dirà forse che questa di Michelangelo Pistoletto al Museo d’Arte Moderna di Ascona è un poco stretta; è comunque la più completa mai tenuta in Svizzera e quel che conta, nel dar conto di un artista, è di evidenziare linea e contenuti del suo percorso mediante scelte rappresentative. Obiettivi che la mostra non fallisce mettendo il focus sui due estremi della sua attività artistica e relazionandoli a distanza non solo per via del filo concettuale che li attraversa, ma anche condensando i momenti intermedi con materiali d’archivio che valorizzano la dimensione sociale e politica dell’arte di Pistoletto.
L’essenziale dei suoi inizi è già tutto concentrato nella prima sala: dalla pittura post-informale degli anni ‘55-‘60 ai “quadri specchianti” esposti per la prima volta alla Galleria Galatea di Torino nel 1963. Poche opere, ma molto significative, condensano un doppio ampio percorso che, in parallelo con l’evoluzione della tecnica pittorica, testimonia pure l’affermarsi sempre più puntuale di un preciso interesse tematico alla base di tutta la sua successiva ricerca di Pistoletto: l’uomo in quanto essere sociale (La folla) ed in quanto individuo, vale a dire come soggetto che, mediante l’autoritratto, si scruta, si cerca ed interroga.
I due poli della riflessione estetica e concettuale di Pistoletto sono quindi già chiaramente individuabili fin dai suoi esordi, risolti per di più nella novità di un linguaggio – i quadri specchianti – che gli daranno presto notorietà internazionale. Questo farà sì che quando il critico Germano Celant, nella seconda metà degli anni ’60, individua ed espone un gruppo di giovani artisti protagonisti di un nuovo modo di concepire funzione e senso dell’arte, Pistoletto si trovi tra i più interessanti anche per via dell’utilizzo di materiali non tradizionali come gli specchi. Sarà la nascita dell’Arte Povera documentata nella seconda sala da alcune opere simbolo di quegli anni tra cui il Labirinto. Gli specchi divisi, nonché La vergine degli stracci, una sorta di manifesto di quell’arte. Si tratta di un’opera dissacrante in cui l’artista pone un’icona celeberrima e immortale dell’arte classica accanto, anzi, quasi fagocitata da un cumulo di indumenti buttati e ridotti a stracci. Era un mettere a diretto contrasto un’antica proiezione di ideale bellezza e armonia con i residui di una società fondata sul consumo, sull’usa e getta.
Tutti quei giovani – affini nello spirito alla Pop o al Nouveau Réalisme – erano legati da un linguaggio e da un obiettivo comune: l’uso di materiali poveri come terra, ferro, legno, stracci, plastica e scarti industriali al fine di liberare l’arte dalla sue incrostazioni storiche e dai suoi orpelli, per attualizzarne il senso. Era un movimento “radicale”, dice Pistoletto, nel senso che voleva andare alla radice delle questioni aperte: fondamentale quella di arrivare a definire significato e funzione del fare arte in un momento in cui la società, non solo italiana ma mondiale, dopo quello industriale, si apprestava ad affrontare un ulteriore momento di trasformazione e di trapasso epocale non privo di forti tensioni e di conflittualità.
Se, a partire da queste considerazioni, si analizza la successiva produzione artistica di Pistoletto, in particolare quella degli ultimi venti anni su cui ritorna il focus nella seconda parte della mostra asconese, non si tarderà a rilevare come tutto il percorso artistico e teorico di Michlangelo Pistoletto, passando per tappe ed opere evolutive, si ponga come continua crescente indagine su quei soggetti e di quei temi che erano già centrali fin dalle prime sue opere. Love difference Mar Mediterrane, Tempo del giudizio, Il Terzo Paradiso altro non sono se non l’epilogo in forma di installazione o di simbolo di quel pensiero diventato utopia di una sperata palingenesi non solo della nostra società, ma dell’intera umanità e nel pieno rispetto della natura considerata la catastrofe ambientale che si sta profilando. Il tutto accentuando sempre più quelle dinamiche relazionali che coinvolgono l’osservatore e fanno emergere la natura non oggettuale ma processuale dell’opera d’arte.
Molto utile in questo senso il video che introduce la rassegna dove l’autore stesso dà utili chiavi di lettura e informazioni circa La Verità di Pistoletto cui rinvia il titolo della mostra. Scelta non certo casuale: perché rimanda sia al concetto di arte come verità e scavo interiore, sia alla storia del Monte Verità e dei suoi lontani precursori animati da una medesima volontà di rinascita palingenetica. Mara Folini, in catalogo, evidenzia il filo che, traversando il tempo, lega quei primi pionieri arrivati ad inizio di secolo agli artisti stabilitisi ad Ascona nel corso degli anni dieci e venti, alla nuova architettura degli anni Venti-Trenta, agli artisti del silenzio venuti negli anni cinquanta: Arp, Richter, Bissier, Valenti, Nicholson. Una catena che arricchisce ora con l’intervento ambientale che Pistoletto ha voluto donare e posizionare proprio al Monte Verità. Questo gesto ha un’alta valenza simbolica: ancora una volta conferma l'attualità e l'essenza dei valori che hanno caratterizzato la nascita di Monte Verità, riattualizza un’utopia di rigenerazione sociale da parte di un artista la cui mostra non poteva che essere il giusto substrato storico e concettuale.