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Giustizia, dal parlamento sì a risoluzione e proposte di riforma

Il Gran Consiglio sostiene all'unanimità il progetto messo a punto dalla commissione ‘Giustizia e diritti’. Dadò: ‘Buon compromesso’. Gobbi: ‘Ora dialogo’

Il Legislativo batte un colpo
(Ti-Press)
16 ottobre 2024
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E alla fine risoluzione fu. Il Gran Consiglio, dopo lunga discussione, ampio miele diffuso sopra braci che covano ancora ma tutti si sono impegnati a non far divampare (troppo) in incendio, ha dato il proprio via libera unanime (61 favorevoli e sei astenuti) alle proposte di riforma della giustizia suggerite dalla commissione parlamentare ‘Giustizia e diritti’. Risoluzione che, in atto da mo’, ha avuto un'accelerata sensibile dopo il caos scoppiato in seno al Tribunale penale cantonale con segnalazioni e controsegnalazioni tra giudici, le immagini inviate dal presidente del Tpc, il giudice Mauro Ermani, a una segretaria e un presunto caso di mobbing.

Le proposte della commissione, una per una

Insomma, è un via libera completo a tutte le proposte di riforma elaborate dalla commissione parlamentare ‘Giustizia e diritti’ con l’obiettivo dichiarato di migliorare l’efficienza, l’indipendenza e la trasparenza del Terzo potere dello Stato. Per quanto riguarda il Ministero pubblico, i suggerimenti sono particolarmente significativi. Nonostante il crescente sovraccarico di lavoro lamentato da anni, la commissione ritiene che il numero di procuratori pubblici non debba essere aumentato al momento. Invece, propone di mantenere la figura del Segretario giudiziario e di reintrodurre quella del Sostituto procuratore pubblico. Quest’ultima misura potrebbe alleggerire il carico di lavoro dei Procuratori, permettendo una migliore distribuzione dei compiti.

Un’innovazione importante, e richiesta da più parti, è la proposta di creare una Direzione interna al Ministero pubblico. Questa Direzione sarebbe dotata dei poteri e delle competenze amministrative e finanziarie necessari per gestire al meglio l’organizzazione dell’ufficio. Avrebbe anche il potere di intervenire nei confronti dei singoli procuratori pubblici quando necessario, senza però sostituirsi al Consiglio della Magistratura. Questa misura mira a migliorare l’efficienza operativa del Ministero pubblico e a garantire una gestione più efficace delle risorse. Per quanto riguarda le altre proposte, la commissione – da oggi con il sostegno del plenum del Gran Consiglio – suggerisce l’introduzione urgente di un codice etico per la magistratura ticinese, in risposta (anche) alla recente vicenda che ha visto coinvolti i cinque giudici del Tribunale penale cantonale e le foto inviate dal presidente Mauro Ermani a una segretaria presunta vittima di mobbing.

Nel pacchetto votato dal parlamento, si propone inoltre di concedere maggiore autonomia finanziaria, gestionale e amministrativa al sistema giudiziario. Questo includerebbe la possibilità di disporre di un proprio budget, di una propria Direzione per la gestione interna e di un regolamento interno. Per la Magistratura dei minorenni, si chiede un potenziamento dell’organico, includendo la nomina di un nuovo Magistrato dei minorenni, un sostituto, un segretario e uno o due educatori. Riguardo alle Giudicature di Pace, si suggerisce una maggiore professionalizzazione proprio dei Giudici di pace, una riduzione del numero dei circoli e una modifica del sistema di remunerazione. Sempre sui giudici di pace, nella risoluzione approvata si chiede di valutare come e se parificarli agli altri magistrati: eliminando, di conseguenza, l'elezione popolare e passando al Gran Consiglio la competenza della loro nomina.

Per quanto concerne invece la nomina dei magistrati, si propone di rivedere la composizione della Commissione d’esperti indipendenti, includendo esperti in gestione delle risorse umane e ampliando i criteri di valutazione dei candidati oltre le mere competenze giuridiche. E, invocati a più riprese, gli assessement vincolanti cui sottoporre i candidati.

E ancora: il Servizio dei ricorsi del Consiglio di Stato dovrebbe essere trasformato in una vera prima istanza amministrativa indipendente, mentre per il Consiglio della magistratura si suggerisce di professionalizzare la carica di Presidente e di chiarire e ampliare i suoi compiti. Infine, per gli onorari dei magistrati, si propone l’introduzione di un piano di carriera con uno stipendio minimo di ingresso e quattro scatti di anzianità ogni cinque anni, insieme alla possibilità di negare questi scatti in caso di sanzioni disciplinari o mancato raggiungimento degli obiettivi lavorativi.

Tutte queste richieste hanno una scadenza. Già, perché le tempistiche sono chiare: la ‘Giustizia e diritti’, infatti, chiede al Consiglio di Stato di rispondere col proprio parere entro il 31 dicembre di quest’anno, e di presentare i relativi messaggi entro giugno 2025.

Il dibattito

A dare il La alla lunga discussione la relatrice centrista Sabrina Gendotti, presidente della sottocommissione ‘Giustizia’ (designata ad hoc) della commissione parlamentare ‘Giustizia e diritti’. «Questa risoluzione – rievoca la deputata – intende gettare le basi per la riforma che la giustizia ticinese chiede senza successo da ormai oltre dieci anni». Segue la prima stoccata al Dipartimento istituzioni di Norman Gobbi: «È vero che il nostro Cantone è restio ai cambiamenti, ma il Di non ha nemmeno tentato di sottoporre delle riforme, né a questo parlamento, né al popolo ticinese, tranne quella delle Autorità regionali di protezione. Un po’ pochino in dieci anni». E prosegue: «Chiaro, le novità calate dall’alto non piacciono a nessuno. Le riforme vengono accolte se si collabora e si ottiene il consenso. Consenso che la commissione ha cercato e trovato tra i suoi membri, tra i partiti e con le autorità giudiziarie. Collaborazione che fino a ora non ha invece riscontrato da parte del governo». I correttivi proposti, dice Gendotti, non sono «nulla di rivoluzionario, ma auspichiamo possano apportare dei miglioramenti tangibili e attuabili in breve tempo. La giustizia ticinese non può più attendere altri dieci anni».

Anche la liberale radicale Cristina Maderni si rivolge al direttore del Di: «Auspichiamo collaborazione e tempestività da parte del Dipartimento istituzioni e della Divisione della giustizia. La strada da percorrere sarà forse lunga, iniziando da una necessaria modifica costituzionale, ma riteniamo che sia quella giusta e che vada nell’interesse della giustizia ticinese e di tutti noi cittadini».

Il leghista Alessandro Mazzoleni, pur sostenendo pienamente le proposte presentate, se la prende con il Centro. «In particolare dalla presidente della sottocommissione giungono inutili critiche al governo. Fa piacere quindi apprendere che ora è urgente potenziare la giustizia con gli importanti investimenti finanziari che ne conseguiranno». Mazzoleni invita dunque «a lasciar perdere le inutili critiche al Consiglio di Stato. A essere lento non è il governo, né tantomeno il parlamento. A essere lenta è la politica che per riforme così importanti deve interpellare tutte le persone coinvolte».

Si sofferma sui principali problemi della giustizia la socialista Daria Lepori che «rimangono la carenza di personale, l’aumento dei casi e della loro complessità, i problemi logistici e il ritardo nella digitalizzazione». Problemi, rimarca, «a cui si potrebbe dare subito una risposta e che, se non risolti, non potranno che peggiorare la situazione, minando ulteriormente la fiducia nelle istituzioni».

«Il tempo dei se, dei forse e, peggio ancora, dei mai è terminato», evidenzia dal canto suo la democentrista Roberta Soldati, che afferma: «La giustizia ticinese non ha bisogno di grandi rivoluzioni, bensì di risposte puntuali su temi altrettanto puntuali. Il pregio di questa risoluzione è che non ha un carattere declamatorio, ma contiene misure concrete e condivise tra i commissari e gli addetti ai lavori».

«Quello della giustizia – osserva per i Verdi Samantha Bourgoin – è un cantiere aperto da tanto tempo rimasto sospeso a lungo nella terra di nessuno. L’obiettivo condiviso è di fornire gli strumenti necessari per poter restituire la serenità operativa necessaria al terzo potere dello Stato, rafforzandone l’autonomia e assegnandogli una sua indipendenza finanziaria, come pure gli strumenti necessari affinché possa automonitorarsi».

Gobbi: ‘Non accetto accuse di immobilismo, ma ora collaboriamo insieme’

Nel suo intervento, il direttore del Dipartimento istituzioni Norman Gobbi è stato piccatamente conciliante. La prende larga Gobbi, ribadendo l'ovvio – ma l'ovvio di ’sti tempi va sempre ribadito: «La giustizia è un valore fondamentale e da salvaguardare, trattandolo con misura e riguardo, rispettando forme e procedure quando se ne discute tra poteri dello Stato. Non va strumentalizzata, perché diventa pericoloso per l'immagine verso la cittadinanza e per la pace sociale». La giustizia, rivendica Gobbi, «lavora bene e funziona, come attestato anche dal Consiglio della magistratura». Certo, ci mancherebbe, «alcuni ambiti di attività necessitano interventi». Ma qui, e siamo al Gobbi piccato, «dire che la giustizia aspetta da anni riforme è un messaggio profondamente sbagliato, alzare i toni su questo tema lede l'immagine della fiducia dei cittadini nella magistratura». E a dirlo, concede, «è un politico che, da consigliere di Stato, nel 2015 credeva con entusiasmo giovanile di dover riformare l'organizzazione giudiziaria cantonale con ‘Giustizia 2018’. Obiettivo ambizioso, che ho capito si può raggiungere solo con la condivisione di tutti e tre i poteri e nei tempi necessari». Perché «la fretta non è mai stata buona consigliera».

Gobbi, senza alzare la voce né lanciarsi in affronti al Legislativo già visti e sentiti in questa seduta, con pacatezza fa notare che «da più parti si accusa il Dipartimento che da più anni è immobile sul fronte giustizia: non posso accettarlo. È stato fatto molto lavoro, sfociato in tanti messaggi di modifiche puntuali di legge e in altri ambiti come la riforma delle Arp. Non posso neppure accettare – continua Gobbi – accuse di interferenza e ingerenza tra potere esecutivo e giudiziario». Questo dal momento che il Di che dirige «nel nostro sistema è il referente della magistratura in termini organizzativi, ed è normale che qualche magistrato, pochi, si sia sentito limitato nel suo potere perché non ha potuto riclassificare in funzione più alta la sua segretaria».

Ma questo è l'unico sassolino, chiamiamolo così, che Gobbi si leva dalla scarpa. Dopo la fase piccata, si diceva, inizia quella conciliante. Nei limiti della coriacea persona. Perché d'accordo, «sulla richiesta di maggior autonomia finanziaria della magistratura il sistema si può adattare, richiederà tempo e risorse non solo finanziarie ma anche di personale operativo». Poi, passando al codice etico, «val la pena ricordare che c'è già per tutta l'Amministrazione dello Stato, rispettivamente i magistrati hanno la dichiarazione di fedeltà alle leggi».

Quindi, «il Consiglio di Stato, preso atto dei correttivi puntuali della risoluzione, si determinerà nei prossimi mesi come richiesto dalla risoluzione stessa. Come direttore del Di, esprimo soddisfazione per l'attenzione posta dal parlamento per la giustizia. Solo con la condivisione dei tre poteri, che porta tempi più lunghi ma maggiore solidità e consenso, i risultati potranno essere positivi. Sarà importante, alla fine di questo dibattito, garantire una visione d'insieme sui vari fronti su cui intervenire tenendo conto delle risorse finanziarie e umane per una giustizia efficace, efficiente e vicina ai cittadini».

Dadò: ‘Grazie alla volontà di raggiungere un compromesso’

Silente oggi, a parte per tombare gli emendamenti dell'Mps bocciati in serie, il presidente della ‘Giustizia e diritti’ Fiorenzo Dadò si era espresso nella giornata di ieri sul pacchetto completo, «riforme che la giustizia aspettava da anni». Anzi, «un primo ciclo di intendimenti cui la sottocommissione apposita ha lavorato tutta l'estate arrivando a un accordo risultato di questo importante e paziente lavoro di approfondimento e ricerca di una quadra che andasse bene a tutti, grazie alla volontà di raggiungere un compromesso». Per Dadò «le segnalazioni di interferenze però non potranno rimanere lettera morta, l'autorità di nomina e vigilanza non può girare la testa da un'altra parte». Soprattutto alcune situazioni «tutt'altro che chiare riferite al mobbing».