7 anni e mezzo per il 21enne che pianificò l'assalto alla Commercio di Bellinzona. Ma il giudice concede le misure alternative per curarsi in un foyer
Non è la pena che importa, in casi come quello della sventata strage alla Scuola di commercio di Bellinzona. Sono sette anni e mezzo, certo, il massimo previsto per i reati contestati data la particolare efferatezza del piano che il 21enne andava meditando da mesi, forse da anni. Ma la cosa più importante, per la corte delle Assise criminali riunitasi ieri al Palazzo dei congressi di Lugano, era decidere sull’eventuale misura alternativa al carcere: è possibile continuare a ospitare il ragazzo in una struttura aperta, oppure il rischio di recidiva sarebbe troppo elevato? La corte presieduta dal giudice Mauro Ermani ha deciso che sì, poiché secondo i periti il ragazzo è curabile la pena è sospesa, e lui potrà continuare il percorso psichiatrico e psicoterapeutico intrapreso presso un foyer in Svizzera romanda (starà ora al giudice dei provvedimenti coercitivi decidere se confermare esattamente la stessa struttura dove si trova dal luglio del 2018 per il proseguimento delle cure). Una nota di speranza, insomma, suffragata dalla convinzione che il giovane abbia superato le iniziali reticenze verso la psicoterapia – giudicata prioritaria rispetto al semplice approccio socioeducativo e di reinserimento professionale – e ora voglia davvero sciogliere i suoi nodi emotivi. In aula, ha detto il giudice rivolgendosi all’imputato, «non sono passate inosservate le lacrime che ha asciugato con un fazzoletto», lacrime che «non sono d’opportunismo, ma sono l’espressione della propria sofferenza interna, autentica: ed è su questo che lei deve lavorare», manifestando «davvero la disponibilità a elaborare i fatti salienti della sua vita».
La corte ha respinto la tesi difensiva secondo la quale l’acquisto di un’enorme quantità di armi – una ventina tra fucili e pistole, regolarmente autorizzati, e altrettanti pugnali e baionette – non sarebbe stato direttamente legato ai propositi di strage, ma solo alla passione per il poligono di tiro. Né si è valutata convincente l’interpretazione degli inquietanti messaggi ad amiche e insegnanti come ‘grida d’aiuto’ che rivelerebbero la volontà di essere scoperto e fermato (come è poi successo il 10 maggio 2018, a cinque giorni dalla data prevista per l’assalto). D’altronde il presidente della corte ha notato che perfino le persone che hanno segnalato l’allora 19enne alle autorità temevano sì un suicidio, ma non sospettavano una strage tenuta dunque ben nascosta. Certo, «i dubbi che l’imputato aveva, le sue esitazioni hanno convinto la corte che il punto di non ritorno non era ancora stato oltrepassato» – così Ermani –, specie perché il ragazzo pareva temere di non riuscire a compiere l’atto per lui decisivo: il suicidio. Ma gli atti preparatori punibili di assassinio plurimo – questo il reato sanzionato, insieme alla violazione della legge federale sulle armi – erano ormai «molto vicini al tentativo», anche se «non sapremo mai se l’imputato avrebbe davvero compiuto la strage».
La pena riflette il pericolo oggettivo e il «grado di intensità» delle azioni, per le quali Ermani ha avuto parole nette: «La lingua italiana non contiene attributi sufficientemente significativi per definire la gravissima colpa» di «una persona che sta organizzando un massacro nella scuola che frequentava», con modalità che «fanno rabbrividire». «Perverso» è giudicato anche lo scopo: uccidere a casaccio e il più possibile per «urlare al mondo la propria cattiveria, la propria rabbia perché con le ragazze non ha successo, perché gli altri lo vedono troppo buono e bravo e perché lo hanno licenziato dal posto di lavoro dei suoi sogni» (nel 2014 l'imputato perse l’apprendistato presso le Ferrovie per un furtarello). Tutti fattori che hanno spinto la giuria a non concedere attenuanti per la scemata imputabilità riscontrata dalla perizia psichiatrica – un fattore che «ha influenza sulla colpa e non sulla pena» – e per la collaborazione alle indagini, circa la quale il giudice ha contestato peraltro qualche reticenza. Oltre ai piani di assassinio plurimo è stata riscontrata anche la violazione della legge federale sulle armi: dovuta non al possesso dell’arsenale, regolarmente registrato, ma a un trasporto di pistole e un’esercitazione non autorizzata sui monti di Daro.
Non sono infine mancate le critiche al ministero pubblico – l’atto d’accusa del dicembre 2018 è firmato dall’ormai pensionato procuratore Antonio Perugini – per il repentino trasferimento dell’imputato dalla Clinica psichiatrica cantonale al foyer nel luglio di quell’anno, senza attendere una perizia psichiatrica, quindi senza accertarsi della pericolosità del ragazzo e del rischio di recidiva. Una scelta che avrebbe anche prevaricato le competenze della corte di merito e del giudice dei provvedimenti coercitivi. Il tutto in un’inchiesta che secondo Ermani «è tutt’altro che ben fatta, laddove il procuratore pubblico ha brillato per la sua assenza delegando la quasi totalità degli atti istruttori alla polizia, e omettendo di confrontare l’imputato direttamente col significato degli scritti da lui allestiti per incrociarli poi con le decisioni degli altri interrogati, con il perché di certe sue espressioni malsane, di certe sue simpatie pericolose» (ad esempio per il nazionalsocialismo). Insomma, senza fare «un lavoro a fondo per capire le origini del movente e lo scopo di quanto aveva in testa». Lavoro che sarebbe poi ricaduto sulla Corte.
Non si prevede ricorso in appello. L’avvocato Luigi Mattei afferma di «condividere in toto le considerazioni del presidente» sulle possibilità di recupero del ragazzo, e il procuratore pubblico Arturo Garzoni gli augura di riuscire a «ritrovare se stesso e soprattutto non essere più un pericolo per la società».