Ticino

'Il vantaggio competitivo del Ticino è legato ai salari'

Secondo uno studio Ire molti settori presentano un buon potenziale. Il professore Sergio Rossi: 'ma i lavoratori soffrono'

25 febbraio 2020
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L’ultimo studio dell’Istituto di ricerche economiche (Ire) all’Università della Svizzera italiana si intitola ‘Le opportunità di espansione dell’economia ticinese’. Utilizza un metodo innovativo di analisi basato sulla teoria della complessità economica – ideata dai ricercatori dell’Università di Harvard César Hidalgo e Ricardo Hausmann – e prende in considerazione la complessità della produzione ticinese per individuare i settori che hanno maggiore potenziale di sviluppo futuro. Secondo l’autore dello studio, il ricercatore Paolo Malfitano, le direttrici lungo le quali potrà crescere l’economia ticinese sono molteplici: logistica (inclusa l’assai discussa moda), settore farmaceutico (già caratterizzato da una forte crescita in anni recenti), ma anche informatica e comunicazione, assistenza alla persona e perfino alimenti, arte e intrattenimento. Epperò.

Piano con l’entusiasmo

Alcuni media hanno subito ripreso la pubblicazione dello studio con toni trionfalistici, preconizzando un roseo futuro per il cantone. Lo stesso Malfitano, tuttavia, ci mette in guardia da conclusioni errate: «Lo studio si concentra solo sul prodotto, per analizzare il tessuto economico ticinese dal punto di vista dell’offerta e andare a vedere – paragonandolo agli altri cantoni – quali sono i settori a maggiore potenziale per il futuro, e quindi dove si potrebbe investire aspettandosi un vantaggio in termini di competitività. Ma ciò non significa che questo sviluppo sia garantito: entrano in gioco anche fattori come la domanda interna ed esterna, la struttura del mercato del lavoro ed eventuali shock esterni. L’individuazione di un vantaggio produttivo non garantisce un successo economico incondizionato».

Secondo Sergio Rossi, professore di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friburgo, «si tratta di uno studio meritevole, perché analizza nel dettaglio il tessuto produttivo ticinese. Una cosa che non accade quasi mai, dato che spesso toccare temi così locali non garantisce visibilità internazionale». Dall’analisi «si desume che il Ticino non è rimasto ancorato al settore finanziario e ha saputo diversificare le attività economiche».

Non si deve però dimenticare, prosegue Rossi, che «la competitività ticinese non è dovuta a un’eccezionale capacità innovativa, all’abilità di ideare nuovi prodotti che spazzano via la concorrenza e così facendo generano margini di guadagno elevati: quella che Joseph Schumpeter definiva ‘distruzione creativa’. Nel settore farmaceutico, ad esempio, molte innovazioni arrivano da Basilea o dall’estero». E se vengono prodotte in Ticino è perché siamo competitivi su variabili un po’ meno lusinghiere: «In particolare le condizioni salariali. Tant’è vero che a mostrare più specificamente un vantaggio comparato per il Ticino sono settori come la lavorazione dei metalli preziosi e l’orologeria, dove il radicamento delle imprese è legato spesso alla possibilità di pagare salari vergognosi. Ciò non fa certo del Ticino un cantone all’avanguardia». La competitività ticinese, insomma, è un’arma a doppio taglio: la sua forza relativa dipende anche dalla debolezza del mercato del lavoro. Questo «implica una crescita economica che non si traduce in maggiore ricchezza per la maggior parte dei lavoratori».

Una situazione che finisce per mettere a rischio le imprese stesse, spiega Rossi: «Siccome a sua volta la compressione dei salari riduce il potere d’acquisto e quindi la domanda interna, l’offerta tenderà ad essere frenata e pericolosamente sbilanciata verso l’esportazione, visto che il mercato locale non ne può assorbire la produzione». La controprova? «A livello interno il settore più promettente dal lato della domanda appare essere quello delle cure sanitarie, guidato dall’invecchiamento della popolazione più forte che altrove, e fortemente dipendente dalle finanze pubbliche».

Occhio alla domanda

Secondo Rossi, dunque, urge tornare «a osservare l’economia con due occhi, come diceva un economista non certo ostile al liberismo come Paul Samuelson: uno rivolto all’offerta, l’altro alla domanda». Si vedrebbe allora che bisogna «sostenere una domanda interna in grado a sua volta di incentivare un’offerta sostenibile a livello locale. In questo frangente, date le difficoltà, è importante che a fare questo sia anche il settore pubblico, investendo in istruzione, sanità, trasporti. Non si può pretendere che l’economia privata esca da sola da questa situazione di stallo».

Per questo anche gli sgravi fiscali non sono una panacea, quando ne beneficiano tutti, belli e brutti: «Meglio sarebbe concedere crediti d’imposta alle imprese che rispettano determinati standard di sostenibilità, ad esempio per quanto riguarda il trattamento salariale e l’investimento produttivo, penalizzando quelle che sottraggono gli utili al territorio a beneficio di speculazioni finanziarie. In questo caso si perderebbero certamente alcuni contribuenti più spregiudicati, ma si otterrebbero più indotto e meno spese sociali dovute ad esempio alla disoccupazione, oltre a un maggiore gettito legato al reddito da lavoro. Alla fine, credo che non rimpiangeremmo le imprese che scaricano sulla collettività i costi di un impoverimento del contesto lavorativo».