Per Christian Marazzi la sua introduzione ha una valenza simbolica ma restano gravi problemi da risolvere. Rico Maggi (Ire): ‘Avrà effetti sociali negativi’
È stato un iter lungo e tormentato, quello che ha portato all’approvazione del salario minimo in Ticino: a 19/19,50 franchi l’ora entro fine 2021, a 19,75/20,25 nel 2025. Troppo? Troppo poco? Ed è stata una buona idea? La polemica è molto politica, ma forse è meglio chiedere un’opinione a un economista, uno di quelli che il mercato del lavoro lo studiano da anni. Christian Marazzi (Supsi) un’idea se l’è fatta.
Professor Marazzi, come giudica l’introduzione di un salario minimo?
A mio modo di vedere, il fatto di aver trovato una certa unanimità attorno all’idea di salario minimo ha un’importante valenza simbolica: significa che la politica, specie dopo il segnale dato dagli elettori alle federali, è stata costretta ad ammettere l’esistenza di un disagio economico diffuso, e la sua stessa crisi di rappresentanza. Il tutto dopo anni di riluttanza a riconoscere che in alcuni settori, in questo cantone, ci sono salari indecenti.
Ma una ventina di franchi all’ora saranno sufficienti?
Sono scettico: mi sembra più un reddito di sussistenza che un reddito salariale, non è dignitoso per una realtà che continua a crescere a tassi così elevati. Peraltro, fissarlo così in basso comporta il rischio di un abbassamento dei salari che ora si trovano sopra questa soglia, destinata a diventare un riferimento. È una dinamica che si è già vista in altri cantoni.
Perché ci si è assestati così in basso?
Purtroppo questo rivela i limiti del salario minimo. Intanto perché definirlo istituzionalmente, peraltro sulla base delle indicazioni di un tribunale, è la strada sbagliata: il salario è una variabile che si determina sulla base di una contrapposizione di tipo sindacale, dal basso, in modo orizzontale e non verticale. La necessità che sia la politica a intervenire riflette la debolezza delle forze che rappresentano il mondo del lavoro.
Anche perché, rispetto a una volta, quel mondo appare parecchio frastagliato.
Infatti, il salario minimo rischia di essere aggirato da tutta una serie di pratiche poco trasparenti che danneggiano la dignità del lavoro e la sua retribuzione: lavoratori a tempo pieno registrati come part-time, tempi parziali che richiedono la disponibilità anche durante il riposo, stage non pagati accettati perché ‘fa curriculum’. E poi esternalizzazione spacciata per lavoro free lance, contratti a chiamata, soluzioni precarie. Tutti sconfinamenti che diffondono il pericolo del lavoro gratuito.
Quale che sia il livello di salario minimo, questi escamotage vanno monitorati e combattuti con strumenti specifici. Quali?
Anzitutto potenziando le operazioni dell’ispettorato del lavoro e le commissioni tripartite (che raccolgono rappresentanti del Cantone, dei sindacati e degli imprenditori per prevenire abusi, ndr), e attraverso l’obbligo di notifica di tutti i contratti. Per aiutare il mondo del lavoro non basta immaginarsi due curve di domanda e d’offerta che s’incontrano in un punto astratto, come nei manuali del primo anno di economia: quel mondo bisogna anzitutto conoscerlo, mentre certe opacità lo rendono difficile. Se si usasse il salario minimo come scusa per non intervenire su tutto ciò – e magari andare avanti a dire che ad abusare sono solo poche mele marce –, diventerebbe una trappola.
Nel frattempo la crescita del lavoro beneficia principalmente i frontalieri. Succederà lo stesso col salario minimo?
Il lavoro è lavoro, e come tale va retribuito dignitosamente, punto. Che poi il lavoro vada al frontaliere invece che al residente è tutto un altro discorso: anche qui bisogna rendere trasparenti i motivi della scelta.
L’impressione, guardando il mondo del lavoro, è che esista un Ticino binario: quello dei libri contabili, molto ricco, e quello dei lavoratori che invece fanno più fatica. Cosa ne pensa?
Questo è un annoso problema, fa parte della storia di un cantone di frontiera: cambiano semmai i settori che beneficiano dei frontalieri, che ora includono anche il terziario. Ma finché speculiamo sui bassi salari, incoraggiamo l’economia a investire su settori poco innovativi, che hanno bisogno di molta manodopera a basso prezzo. Finché ci si vuole arricchire sulle spalle della forza lavoro avremo certamente crescita, ma anche povertà. Per questo è importante che la politica conosca meglio la situazione, e non si limiti a sventolare soltanto il solito dato sulla disoccupazione: il problema è anche, forse soprattutto, quello del precariato.
Rico Maggi, direttore dell’Istituto di ricerche economiche (Ire) presso l’Università della Svizzera italiana, non è per niente convinto dall’idea del salario minimo. «Se si guarda la letteratura – spiega Maggi – tendenzialmente si identifica un effetto sociale negativo dei salari minimi. Certo, migliora la situazione di chi mantiene il lavoro e ora si vede riconosciuta una retribuzione maggiore. Allo stesso tempo, però, il salario minimo costituisce una barriera per due categorie di lavoratori già particolarmente deboli: chi è al primo impiego e chi non ha qualifiche professionali». Restando all’analisi teorica, c’è chi ritiene che nel lungo periodo proprio il maggior costo del lavoro possa incentivare il miglioramento della produttività generale eliminando attività con salari e produttività bassa. Ma Maggi non si aspetta grandi conquiste in tal senso: «Si tratta di un effetto incerto, per il quale abbiamo a disposizione pochi riscontri univoci. Si rischia semmai di spingere le imprese a sostituire il lavoro col capitale».
In Ticino, poi, Maggi si aspetta un effetto già riscontrato con i salari minimi inseriti nei contratti collettivi di lavoro: «Quando all’Ire abbiamo studiato le conseguenze di queste soglie minime di retribuzione tra il 2012 e il 2014, l’effetto era chiaro: dovendo pagare di più i lavoratori poco qualificati (il 10% più basso della scala salariale) e non potendo ampliare la massa salariale, le aziende hanno abbassato gli stipendi per le posizioni altamente qualificate (il 10% più in alto). La mediana degli stipendi è rimasta invariata». Invece di innovare di più ed essere più produttiva, Maggi teme poi che la realtà ticinese si rivolgerà sempre più ai frontalieri. «Aumentando ulteriormente il differenziale fra i salari italiani e quelli svizzeri, il mercato ticinese diventerà ancora più attrattivo per i frontalieri, e quindi la loro competizione aumenterà». Inoltre, «se le aziende dovessero ridurre i salari più alti, avranno difficoltà a reclutare lavoratori qualificati residenti. I nostri giovani sarebbero più incentivati ad andare a lavorare in Svizzera interna, e anche per i livelli più alti delle gerarchie aziendali ci si rivolgerebbe ai frontalieri». Fra l’altro, «secondo una simulazione recente dell’Ire l’occupazione potrebbe diminuire di circa l’1%. La diagnosi è chiara: la disuguaglianza diminuisce tra gli occupati, ma ce ne saranno di meno, e probabilmente più frontalieri». Insomma: per Maggi l’effetto del salario minimo «è indesiderato, anche se non possiamo quantificare con certezza quali saranno le dimensioni del fenomeno, soprattutto nel lungo periodo».