Distruzioni per l'uso

'Se gela, pattiniamo': gli studi dell'Ire e l'ottimismo esagerato

Non è che l'ultima analisi dell'istituto sia sbagliata: è che la sua presentazione è del tutto parziale. Si dimentica che al testo va aggiunto il contesto

(archivio Ti-Press)
25 febbraio 2020
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“Un cantone dal tessuto economico in ottima salute e altamente competitivo”. “Non insomma il Ticino fanalino di coda di molte classifiche che ormai sempre più spesso siamo abituati a vedere. Lo dice l’ultimo rapporto Ire (l’Istituto di ricerche economiche della nostra università, ndr) sulla struttura economica ticinese”. “Un quadro insomma lontano dalla lista di problemi spesso addotti quando si parla di mercato del lavoro ticinese: dumping, precariato, salari inferiori alla media svizzera”. Son lì in salotto con la mia bella tisana al finocchio quando m’imbatto in questi acuti mediatici. Fisso la tazza in preda al terrore: non sarà che ho messo l’acido lisergico al posto del miele? Ora passano pure gli elefantini rosa?

Poi grazie al cielo mi calmo un attimo, e vado a scaricare lo studio di cui si parla. Lo stampo, faccio un bel respiro, lo leggo con attenzione. E nonostante sia lo stesso direttore dell’Ire ad aver detto durante il servizio che “da tempo cerchiamo di dimostrare che il Ticino sta bene quanto la Svizzera” – ma è scientifica questa cosa di voler dimostrare una narrazione politica? –, mi rendo conto che non sono impazzito, che lo studio in realtà è molto meno trionfalistico: si limita, con rispettabile rigore analitico per quel che ne capisco, a individuare i settori a maggior potenziale alla luce delle opportunità di produzione. Dice in sostanza che non dipendiamo più da quel vecchio parassitismo finanziario legato al defunto segreto bancario, che dal punto di vista della diversificazione abbiamo fatto di necessità virtù. E che potremmo crescere ancora su tutta una serie di settori: dal farmaceutico alla cultura, dalla logistica – leggi: moda – all’assistenza sanitaria.

Ma siccome lo studio si concentra severamente sul prodotto, e non sulla domanda interna o sul mercato del lavoro, si astiene da giudizi su come possa avvenire quello sviluppo, e a che prezzo. In altre parole non sostiene affatto che quella crescita sia scontata, né tantomeno che porti un benessere diffuso. Se infatti si allargasse l’inquadratura ai fattori che ci danno un vantaggio competitivo – lo spiega oggi da par suo Sergio Rossi – si scoprirebbe l'altra faccia della medaglia: una produzione basata su idee innovative ma partorite altrove, che in Ticino trova il banale vantaggio di salari nettamente al di sotto della media nazionale. E quindi si può crescere ancora, certo, ma non è affatto detto che di quella crescita si avvantaggi la popolazione. Perché si può fare prodotto interno lordo anche con salari ridicoli e disoccupazione superiore alla Lombardia. (Rico Maggi dice che su questo “i dati Ilo non dimostrano proprio niente”: molti economisti ed esperti di statistica sostengono il contrario, ovvero che proprio il dato misurato secondo i criteri dell’International Labour Organization è quello indicativo a livello macroeconomico, mentre i dati della Segreteria di Stato dell’economia sottostimano il fenomeno.)

Questa storia mi fa riflettere su come spesso si comunicano in Ticino i dati economici, e abbiate pazienza se le prossime righe saranno scritte col sopracciglio alzato e tagliando con l'accetta alcuni concetti. Ora, ogni comunicazione è composta almeno da due fattori: testo e contesto. Il testo, in questo caso, è lo studio dell’Ire: e per quel che posso vedere, avrebbe anche le sue basi. A fare la differenza, però, è il contesto: finché un’analisi del genere è condivisa fra specialisti che hanno ben presente anche la sua cornice  – un mercato del lavoro basato sull’effetto frontiera e sulla compressione dei salari, un quadro demografico da bocciofila, sgravi fiscali a pioggia –, chi legge capirà subito che la ricerca è circoscritta: ci sono settori promettenti, sì, ma la maggior parte di noi rischia di non accorgersene neppure. Se invece – per banale sciatteria o peloso interesse – si butta il testo all'opinione pubblica fuori da quel contesto, sarà facile utilizzarlo come dimostrazione di chissà quali magnifiche sorti e progressive. Queste sorti poi, guarda caso, nessuno le vede nella sua esperienza personale, al punto di credere che se la pensiamo diversamente siamo tutti scemi. Col rischio, magari, di dover scegliere fra narrazioni lisergiche e millenarismo populista. È un po’ come la vecchia barzelletta del pessimista e dell’ottimista: “Siamo nella merda.” “Beh, se gela pattiniamo”.