Dodici mesi sospesi per un 48enne, intermediario di un’azienda comasca, accusato di aver versato in Svizzera oltre 260mila franchi
Una cifra considerevole, oltre 260mila franchi, frutto della merce che sottraeva, indebitamente, dall’azienda lariana dove occupava il ruolo di intermediario commerciale. È stato condannato dalle Assise correzionali, per il reato di riciclaggio ripetuto di denaro, un 48enne italiano, residente a Lugano, che, fra il gennaio 2014 e il marzo 2016, ha trasportato dall’Italia in Ticino i contanti che aveva ricavato nel rivendere il materiale tessile di cui si era appropriato. Curioso il ‘modus operandi’: per non specificare all’istituto bancario la provenienza del denaro, aveva pensato di versarlo alle casse automatiche delle filiali di Lugano, Paradiso, Chiasso e Zurigo, con una certa regolarità e per la precisione in ben 76 occasioni. Cifre che variavano da poche centinaia di franchi a svariate migliaia. Con lui avevano agito due correi, un uomo e una donna, già condannati fra il novembre 2019 e il marzo 2020 dal Tribunale di Como.
Secondo la procuratrice pubblica Francesca Piffaretti-Lanz, che aveva chiesto la conferma integrale dell’atto d’accusa e una pena di 14 mesi (sospesa), l’imputato «nato e cresciuto nell’azienda, conosceva bene la clientela italiana e i processi interni, anche informatici, ciò che ha agevolato i crimini. Dal 2012, venuto ad abitare in Svizzera, poteva inoltre contare sui ‘freschi freschi’ conti bancari, su cui versava il maltolto per mezzo del tesoro notturno». Il ‘Metodo Bianchi’, come emerge nell’inchiesta italiana, «comportava – è stato illustrato nella requisitoria – la vendita sottobanco di tessili, ad almeno tre clienti, per ricavarne un illecito guadagno. La versione dell’imputato, dunque, non regge. Inoltre, su questi conti non ci sono accrediti della sua attività professionale lecita tramite la sua ditta individuale. Tutto è quindi provento di reato, soprattutto facendo riferimento all’elemento principe, ovvero il trasferimento in contante transfrontaliero».
Diretta e perentoria la difesa, sostenuta dall’avvocato Ramella Matta Nassif Khouloud nel richiedere la piena assoluzione: «È un atto d’accusa frutto di sole congetture, siamo di fronte a un castello accusatorio debole. Se fosse stato provento di reato non avrebbe dovuto rendere tracciabile né tangibile quel denaro, come diversamente ha fatto. Emerge in modo incontrovertibile che quel denaro è stato utilizzato per far fronte a spese correnti e non al fine di occultarne l’origine. La generalità e l’indeterminatezza delle accuse per riciclaggio sono evidenti. Vi è assenza dei presupposti oggettivi e soggettivi, nulla agli atti porta alla colpevolezza del mio assistito».
Il giudice Marco Villa non ha però accolto questa tesi e ha condannato l’imprenditore indipendente nel ramo tessile, come si è definito nel dibattimento, a 12 mesi sospesi per un periodo di prova di due anni. Un atto d’accusa dettagliato, lo ha giudicato la Corte, seppur – è stato evidenziato – «non vi sia la prova certosina che ogni versamento sia provento del reato contestato». Per questo è stato confermato il riciclaggio, in «un agire ripetuto e cronico», ma la pena è stata leggermente riveduta rispetto alle richieste dell’accusa.