laR+ Locarnese

‘Lugano ha reagito come un bambino capriccioso’

Peter Schrembs, già “autogestito” a Locarno, oggi vicino ai molinari: “Mandare le ruspe è stata la logica risposta di una democrazia autoritaria e infantile”

Agosto 2004, Locarno
(Ti-Press)
4 giugno 2021
|

Se una foto può farsi emblema di sentimenti contrastanti, quella scattata all’ex Macello di Locarno a fine agosto del 2004 è da manuale. Peter Schrembs, portavoce di “Lokarno Autogestita”, spiega alla polizia il senso del movimento e dell’occupazione in atto. Alla sua destra c’è un agente in divisa, alla sua sinistra l’allora comandante della Polcomunale di Locarno Andrea Ronchetti, in abiti civili. L’espressione di Schrembs è quella di un docente di matematica che tenti di spiegare le frazioni ad un allievo recalcitrante; quella dei due poliziotti attonita, confusa. Ne scaturirà, ovviamente, uno sgombero. Ma anche la più che accettabile soluzione dell’Auletta alle ex Scuole comunali; prima ancora, poche ore dopo l’allontanamento, un’immagine indelebile: le lacrime della municipale socialista Tamara Magrini mentre sotto Palazzo Marcacci osservava la protesta degli autogestiti, più tristi che arrabbiati.

Peter Schrembs, classe ‘54, da sempre esprime concetti che semplicisticamente potremmo definire “anarchici”. Anarchico era del resto quel Carlo Vanza che dà il nome al Circolo di Bellinzona in cui lo stesso Schrembs ha appena sottolineato il 50° dalla nascita del Cantiere della gioventù di Locarno, un centro sperimentale provvisorio di occupazione del tempo libero da cui sarebbero sortite più o meno solide esperienze di rivendicazione di un centro sociale a Locarno.

Schrembs, chi era “Lokarno Autogestita”, già la cui sola “k”, ricordiamo, aveva indisposto non pochi benpensanti in città?

Era l’espressione di un movimento più “hippy” rispetto a quello consolidato nella realtà luganese. Pur essendo anche noi rivendicativi, e denunciando il mercantilismo e la commercializzazione della società, eravamo più affini a un dialogo direi istintivo. Tant’è vero che già prima, e poi anche durante l’occupazione, cercavamo di mantenere un contatto con la città. Per l’ex Macello avevamo in mente un centro popolare per tornei di bocce, musica punk, contestazione e Merlot. C’era anche un progetto di impianto fotovoltaico da piazzare sul tetto per poter fare a meno dell’approvvigionamento energetico da parte del Comune.

Finì male.

La nostra reazione all’intervento di polizia che chiuse l'esperienza di autogestione fu fondamentalmente non violenta. Si presentarono con camion carichi di blocchi di granito da piazzare davanti agli accessi. Finimmo tutti al Pretorio per le verbalizzazioni. Poi ci fu il bel gesto della città, che decise di ritirare tutte le denunce. Raccolse, credo, le preoccupazioni dei più giovani fra noi che dovevano cercarsi un posto di lavoro e non avevano bisogno di precedenti penali. Fu una dimostrazione di buonsenso che per certi versi mi rimanda ad una precedente occupazione: quella della Baronata di Minusio. Sono passati 38 anni. Con me, mia moglie Cesy, i bambini e una dozzina di compagni ticinesi, c’erano degli anarchici zurighesi. Eravamo mascherati da Bakunin. Durò 10 giorni. Noi tornavamo a casa a dormire, gli zurighesi a turno ci seguivano per farsi una doccia. Intervenne un giorno un poliziotto, da solo. Ci ascoltò poi disse: “Ma racomandi, fii i bravi”.

Il suo Circolo Carlo Vanza mantiene, per affinità, contatti costanti con i molinari. Come ha vissuto l’escalation luganese?

L’occupazione al Vanoni – decretata zona autonoma temporanea – è stata presa a pretesto per giustificare la demolizione di un altro luogo. I fatti credo si commentino da soli. Il Municipio si è comportato come un bambino capriccioso che si arrabbia ed esprime il suo modello di democrazia autoritaria e infantile. La risposta sono state le ruspe: un’azione del tutto in contrasto rispetto a quella che avrebbe dato l’espressione politica di una democrazia matura.

A monte va anche detto che il Molino non ha brillato per volontà o capacità di comunicazione.

Questo approccio nei confronti dell’autorità nasce nel '96, con una nuova forma decisionale, organizzativa e anche comunicativa. Va ricordato che nel 2002, per la firma della convenzione, era stata chiamata in causa l’Associazione idea autogestione (Aida) quale garante.

Lo vede come un merito?

Di certo non come un difetto. Il Molino ha un senso se è una spina nel fianco dell’autorità, e non un semplice paravento culturale davanti alle magagne della città. L’autogestione è conflittualità, è pensare e agire senza l’obbligo di rendere conto a qualcuno. La differenza sostanziale fra l’esperienza locarnese e quella luganese è che nel primo caso non volevamo forzare nulla, e così facendo non si creavano quelle situazioni di conflitto che sono l’anima e lo spirito dell’autogestione. Il concetto di “conflitto” viene generalmente assunto secondo la sua accezione negativa, ma segna invece il distanziamento rispetto ad un tipo di società che non va bene. La conflittualità diventa un valore, e non un limite. A Locarno mancava questo aspetto, ma quel vuoto si manifestava con espressioni di disagio, in particolare giovanile, che conosciamo bene ma sulle quali forse non riflettiamo abbastanza.

Fatto sta che riuscire a parlarsi rimane alla base di soluzioni o almeno di compromessi.

Visti gli attori in campo, è inevitabile che un dialogo diventi molto ma molto difficile. Dialogare presuppone innanzitutto la capacità di capire le dinamiche altrui, di entrare in altre logiche rispetto alla propria.

Quali sono i valori per cui uno Csoa, a Lugano, non può non esserci?

La riappropriazione d’uso delle strutture urbane da parte della gente. Il recupero di zone abbandonate. Rispetto alla città mercantilizzata che è oggi Lugano, il Molino è un’alternativa in netta contrapposizione, ma fatta di umanità e creatività. Rincorre la visione di una città moderna, bella e vivibile. La stessa visione era alla base del Cantiere della gioventù di mezzo secolo fa a Locarno. Già allora si parlava dei rischi di un profitto privato perorato in modo indegno. È quello che Lugano ha assunto come “credo”.

Sulle macerie lasciate sabato notte nascerà quel Campus Matrix che secondo il sindaco Borradori trasformerà l’ex Macello in “un luogo di aggregazione vero e proprio, permeabile e aperto a tutta la cittadinanza”. Ci crede?

Si è detto che l’obiettivo del Campus Matrix è quello di una riqualifica a livello socioculturale. Beh, il Molino fa proprio quello. Le sue attività culturali proposte nell’ambito dell’autogestione sono già di prim’ordine e perfettamente in linea rispetto a quella visione, anche riguardo al coinvolgimento costante della popolazione e all’applicazione di principi come la necessità di una vigilanza e il rifiuto di derive come ad esempio lo spaccio o il sessismo. Il progetto di Campus Matrix avrebbe avuto un senso compiuto se avesse tenuto conto di una realtà come quella dell’autogestione.

Adesso cosa succede, secondo lei?

Il Molino tiene ad una presenza nel centro urbano, che è importante per mantenere un presidio di resistenza in città. Prevedo la perdita di momenti di socialità, ma anche episodi di recupero di altre strutture.

Si parla di un’alternativa sul Piano della Stampa, con l’ex depuratore di Cadro che passerà nelle mani della città di Lugano. È un’ipotesi plausibile?

Credo che il Csoa abbia sufficienti risorse, in forza e creatività, per fare anche di Cadro un punto di aggregazione significativo così come lo è stato l’ex Macello. Non posso non ricordare l’esperienza al Maglio: è stato un polo culturale importante, ma non solo, anche un luogo d’accoglienza per reietti e migranti. Cadro è una carta che può essere giocata con successo.