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Nina Buffi: ‘Quando morì papà, per anni non affrontai il trauma’

Aveva 15 anni quando perse il padre Giuseppe, presidente del governo. Nel libro ‘Vòltati’ racconta come ha imparato a curare le ferite emotive

(Istituto editoriale ticinese)
13 novembre 2024
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Era il 20 luglio 2000. In quella sera d’estate come tante il Ticino perse il presidente del governo, un’adolescente dovette dire addio al suo papà. Grande per l’intero cantone fu lo sconcerto per la morte improvvisa di Giuseppe Buffi, avvenuta a Chioggia dov’era in vacanza con la famiglia, vittima di un infarto mentre era al volante. Consigliere di Stato e responsabile dell’allora Dipartimento dell’istruzione pubblica e della cultura, avrebbe compiuto 62 anni in ottobre. Sull’auto andata a sbattere contro un palo della luce, oltre alla moglie Mirka, c’erano la figlia e una sua amica di 13 anni.

Nina Buffi di anni ne aveva 15 e dopo avere ostinatamente e a volte rabbiosamente voluto guardare solo avanti, ha deciso di provare a voltarsi “perché quello per cui vale la pena vivere è al di là del dolore alle tue spalle”, perché “altrimenti vivere di spalle diventerà un’abitudine”.

‘Vòltati’ è il titolo del libro in uscita oggi per l’Istituto editoriale ticinese, nel quale ha voluto ripercorrere quegli eventi intrecciando varie forme – l’autobiografia, alternando la Nina bambina e la Nina adulta; la sceneggiatura cinematografica, scelta per narrare con distacco i momenti legati all’incidente; il racconto – e affrontare l’impatto che ha avuto su di lei la scomparsa del padre che tra le mura di casa non era il Giuseppe Buffi politico ma il Beppe. Con il suo quasi romanzo (dal sottotitolo) mette l’accento sulle difficoltà con cui ancora oggi si parla di lutto e, in generale, di ferite psicologiche e grazie alla scrittura che, sarà un caso?, l’accomuna al suo papà, scende a patti con un trauma che ha segnato tutta la sua vita: la morte di un uomo che se n’è andato all’improvviso, e le vite spezzate di chi è rimasto e il loro tentativo di ricucirle.

Com’è nata l’idea del libro, che lei scrive essere germogliata nel tempo?

È un pensiero che ho da almeno dieci anni. All’inizio c’era il bisogno di raccontare la mia storia e mi dicevo che ci avrei fatto un libro, senza però rendermi conto della differenza tra una scrittura come elaborazione e una scrittura destinata poi a una pubblicazione.

Grazie anche al confronto con diverse persone, con il tempo ho capito che dietro a tutte le mie pagine ci poteva essere un messaggio. E cioè, riassumendo, che quando si subiscono traumi psicologici non di rado si è meno aiutati rispetto a quando si è confrontati con traumi fisici. Intendiamoci, in alcuni casi il supporto c’è; ma ancora di frequente ci si ritrova a dover affrontare da soli uno shock emotivo. Nella presa a carico della mente ci sono sicuramente stati dei progressi, ma penso che ci sia ancora molto che si possa fare. Si è ancora lontani da quella che a mio parere sarebbe la situazione ideale: ossia che un problema mentale sia trattato al pari di uno fisico. Ritengo che sia un bene parlare tanto delle conseguenze di un problema fisico, quanto di quelle di una ferita psicologica.

E per quanto il mio sia ‘solamente’ un libro, chissà che non possa far sentire meno solo qualcuno che ha dovuto affrontare un momento sconvolgente, che non deve per forza essere simile al mio poiché ogni storia è diversa.

Fin dai primi momenti dopo l’incidente, racconta come si fosse imposta di non volere che il trauma della perdita del papà le condizionasse, o addirittura le definisse, la vita. E invece... (niente anticipazioni). Come ha influito, in termini di scelte di vita o tipo di aspetti della sua personalità?

È una buona domanda. Mi vengono in mente due elementi. Uno, è che facevo parecchia fatica a sopportare negli altri qualsiasi forma di vittimismo o di quello che io percepivo come tale. Era un atteggiamento che mi faceva irrigidire e mi infastidiva, perché in primis era qualcosa che non accettavo per me stessa.

E l’altro aspetto è che quando vengono bloccate le emozioni, come per molti versi ho fatto io, non si lascia che le situazioni ci tocchino dal punto di vista emotivo in quanto è complicato scegliere quali sentimenti si vogliono provare e quali no. Il risultato è che riconosco di avere avuto probabilmente una certa mancanza di empatia.

Sulla sua reazione iniziale e poi sul percorso, ha contato il fatto che suo papà fosse una persona molto conosciuta in Ticino?

Ha contato all’inizio, nei quattro anni prima che lasciassi il Ticino. Logicamente numerosissime persone sapevano dell’accaduto e nessuno mi poneva domande (anche di quelle che escono in una normale conversazione come ‘che lavoro fa tuo papà’, ‘vai in vacanza con lui?’), che avrebbero potuto creare situazioni di imbarazzo. Ma paradossalmente quelli che sicuramente erano nelle intenzioni dei gesti di attenzione nei miei confronti, non mi hanno aiutata: non avendo mai dovuto fornire risposte, non mi sono ritrovata faccia a faccia con un accaduto e con le sue conseguenze.

È così rimasto una sorta di velo, che peraltro mi ero messa da sola, tra me e il mondo: da una parte c’ero io, tutta intenta a non essere una vittima e ad andare avanti pretendendo che non fosse accaduto nulla; e dall’altra tutte le persone che, a loro volta, facevano un po’ finta di niente e stavano ben attente a non dire una parola di troppo o fuori posto per non mettermi in difficoltà.

Premesso che, uno, sono tantissimi i giovani ticinesi che frequentano l’università Oltralpe e, due, non è detto che il cantone offrisse e offra opportunità interessanti in ogni ambito lavorativo. Ma sulla decisione di rimanere lontana dal Ticino anche dopo gli studi, quanto hanno pesato i ricordi dolorosi e quel suo vissuto nei quattro anni dopo l’incidente?

Penso che sulle mie scelte abbiano influito più elementi. Devo dire che come tanti bambini e ragazzi, con quel mix di curiosità e arroganza tipico dell’età ho sempre pensato che sarei andata via, avrei fatto cose...

Quanto successo forse un po’ ha influito. Credo più che altro per quella competizione che può nascere in un figlio nei confronti di un genitore. Tante persone mi dicevano quanto e come mio papà fosse una persona in gamba e il fatto che sia morto all’apice della sua funzione politica, lo ha reso tale per sempre. Ho sempre avuto il retropensiero (o il timore?) che in Ticino avrei rischiato di essere ritenuta non all’altezza di mio padre oppure una che è riuscita in qualcosa perché agevolata essendo la figlia di ‘quel’ padre. Mi sono sottratta da questo confronto ai miei occhi impari e da un’asticella vista come inarrivabile. Parlo specialmente per gli anni addietro; perché per le nuove generazioni il nome e la figura di Giuseppe Buffi vanno vieppiù sfumando e probabilmente oggi un rimando a lui sarebbe meno evidente.

Fin da giovane è stata appassionata di scrittura, ma da quando è morto suo papà – scrive nel libro – è un interesse che ha accantonato. La scrittura è semplicemente una passione che, casualmente, la accomunava a suo padre o (anche) un modo per provare a essere alla sua altezza?

C’è un po’ dei due aspetti. Già da bambina mi piaceva parecchio scrivere, mi ero anche cimentata in un mini thriller e in occasione di feste o anniversari regalavo biglietti scritti da me. Parole, le mie, per le quali inevitabilmente cercavo la sua approvazione. Dopo l’incidente, a parte i testi richiesti a scuola, di mio non ho più prodotto nulla: scrivere mi rimandava a lui e il ricordo era troppo doloroso.

È cresciuta con l’idea che essere forte di fronte ai drammi, voglia dire tirare innanzi senza voltarsi. Oggi, con un cammino di elaborazione di quanto accaduto, si sente forte? E di che tipo di forza?

(Ride, sospira). Rispondo così: mi ritengo abbastanza forte da non avere paura di mostrare la mia vulnerabilità. Non ho più bisogno di indossare una maschera, per far vedere a chicchessia che va tutto bene e che niente mi scalfisce.

Detto questo – si prende un attimo –, credo che ci sia una consapevolezza del fatto che ok, ho perso il mio papà in quel modo, ho elaborato l’accaduto, ne ho tratto un progetto che per me è bello. La consapevolezza, dicevo, è di esserci passata ed esserne venuta fuori. Più che di forza parlerei di calma. Calma nell’aver compreso che, per quanto difficili siano i conti che la vita ti mette sul tavolo, ce la si può fare a saldarli e a uscirne. E il libro è una sorta di chiusura di un cerchio.

C’è qualcosa che, oggi, vorrebbe tanto aver la possibilità di dire a suo papà?

C’è uno spezzone di un’intervista che fece in televisione, in cui papà a un certo punto dice “e tiriamo innanzi e tutti”. Non so con certezza a cosa si riferisse, forse alla perdita di uno dei suoi figli. Ecco, con lui mi piacerebbe avere una conversazione sul fatto che va bene tirare avanti e dirsi che quel che è successo, è successo; ma che se non ci prendiamo il tempo di guardare il dolore in faccia e di viverlo, poi non guariamo.

È il ‘vòltati’ del libro. Il tirare avanti funziona, ma dopo che ci si è curati; altrimenti rimangono ferite emotive che ci rendono zoppi nella vita di tutti i giorni.

Cosa vorrebbe invece che dicesse suo papà alla Nina di oggi?

La mia è una risposta un po’ da film... Ma penso che, da qualche parte, la Nina che era bambina quando se n’è andato, cerchi ancora l’approvazione di un papà che le dica “sono orgoglioso di te!”.

L’autrice

Nata il 2 aprile 1985, Nina Buffi trascorre infanzia e adolescenza a Bellinzona. Dai 9 anni e fino al termine del liceo classico pratica il tennis a livello agonistico. Studia microtecnica biomedicale al Politecnico di Losanna, ottiene un Master all’Università della Columbia Britannica a Vancouver e consegue, nel 2013, un dottorato al Politecnico di Losanna. Vive e lavora per una decina di anni a Berlino dove parallelamente ottiene un diploma post-laurea all’European School of Management and Techology. Dall’estate 2024 risiede a Londra, dove è Head of Operations in una ditta di biotecnologie.

Il libro sarà presentato al Teatro Sociale domenica 17 novembre (ore 17, ingresso libero) in un appuntamento dal titolo ‘Raccontare un ricordo’. Sarà presente l’autrice Nina Buffi, modererà l’incontro il giornalista Michele Fazioli. Parte del ricavato di ‘Vòltati’ sarà devoluta al Care Team Ticino, servizio cantonale che interviene nell’urgenza (su attivazione della polizia e dei servizi ambulanza) a supporto delle vittime di un evento traumatico.

Nina Buffi, per finire si è voltata?

Penso. Penso di sì – fa una pausa e poi riprende –. Penso di averlo fatto con questo libro.

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