Il riscaldamento globale porterà a movimenti migratori mai visti: una soluzione, non un problema, ci spiega Gaia Vince ospite domani alla Supsi
Migrazioni e cambiamento climatico figurano periodicamente tra le prime preoccupazioni della popolazione. Eppure le prime potrebbero aiutarci ad affrontare la seconda, come spiega la scrittrice, giornalista, divulgatrice scientifica britannica Gaia Vince, autrice di ‘Il secolo nomade’ (Bollati Boringhieri 2023) e ospite di ‘Emergenza Terra’. La sua conferenza “Nomad Century: how to survive the climate upheaval” (in inglese con traduzione simultanea) chiuderà domani alle 18.30 al Campus Supsi di Mendrisio il ciclo di incontri dedicato quest’anno a clima e conflitti. La conferenza sarà preceduta, alle 17, dalla chiusura della mostra ‘A Theory of Waves: Case Study #3’ di Marco Poloni, con l’artista in dialogo con Cristian Scapozza (professore Supsi in geomorfologia applicata) e Lucio Calcagno (docente Supsi in matematica).
Gaia Vince, il suo libro si intitola ‘Il secolo nomade’. Perché “secolo”? La migrazione è un elemento chiave dell’intera storia umana…
Sì, la migrazione fa parte della condizione umana, ma il libro si concentra su ciò che sta accadendo nel XXI secolo e su ciò che possiamo aspettarci, per questo l’ho intitolato ‘Il secolo nomade’: dopo un periodo in cui la maggior parte di noi si considera stanziale, assisteremo a un’ondata enorme di movimenti umani, più grande di qualsiasi cosa accaduta finora. Per la maggior parte della nostra storia l’umanità si è spostata, ma la popolazione era molto piccola; ora siamo oltre otto miliardi di persone, viviamo in un mondo globalizzato: siamo di fronte a un fenomeno molto più grande.
E perché ‘nomade’? L’esito di queste migrazioni saranno nuovi insediamenti permanenti, non stile di vita veramente nomade.
No. Tendiamo a pensare ai nomadi come persone per cui quello è il loro stile di vita. Ma alcune persone si stanno già spostando più volte a causa del cambiamento climatico. Si spostano da un luogo, vengono sfollati, poi quel posto viene colpito, si spostano di nuovo. Già adesso ci sono persone che si sono spostate più volte in pochi anni. Vedremo molto più spesso questo fenomeno.
Penso al nomadismo come a un modo diverso di concepire la casa, l’appartenenza, la cittadinanza e la terra. Il nostro rapporto con lo spazio dovrà cambiare. Dovremo smettere di pensare al luogo in cui viviamo come al posto che abbiamo diritto di considerare nostro. Questo senso di diritto dovrà cambiare: dovremo pensare alla terra in modo più olistico, dovremo adottare una prospettiva più planetaria della terra. Invece di pensare a un luogo come esclusivamente nostro, dovremo iniziare a pensare al pianeta come a un posto dove ci sono luoghi sicuri e luoghi non sicuri. E tutti gli esseri umani dovrebbero avere il diritto e la possibilità di spostarsi in luoghi più sicuri.
È un grande cambiamento rispetto al nostro attuale modo di pensare.
Sì, è molto diverso: per via dei sistemi che abbiamo ereditato e di ciò che comprendiamo della nostra situazione, abbiamo inventato questa relazione speciale con lo spazio, abbiamo creato confini e abbiamo deciso chi appartiene e chi non appartiene a un luogo specifico. Ma se guardiamo alla biologia umana, in realtà siamo adatti a vivere in luoghi diversi: ci siamo sempre spostati, non c’è un posto al quale apparteniamo escludendo gli altri, abbiamo la capacità di vivere ovunque.
Il sistema attuale non potrà più funzionare: stiamo rendendo inabitabili grandi parti del mondo, le disuguaglianze aumentano e si moltiplicano i problemi sociali. Dovremo ripensare il sistema attuale perché i confini artificiali che stiamo creando, che abbiamo creato, che tengono le persone fuori o dentro alcuni luoghi, non sono reali. Li abbiamo inventati, ma i veri confini sono quelli imposti dal sistema climatico, dalla geografia e dalla geologia. Non possiamo combattere contro tempeste violente e coste che si erodono: abbiamo visto cosa è successo a Valencia. I nostri sistemi umani che sembrano così reali e solidi non sono all’altezza della potenza di questi grandi sistemi terrestri. Dovremo rispettare i veri confini e questo significa cambiare. Non possiamo coltivare enormi quantità di cereali, riso e grano dove non c’è pioggia, dove non ci sono precipitazioni.
Non possiamo vivere in condizioni dove il caldo è troppo intenso per vivere all’aperto. Queste cose non sono possibili e questi sono veri confini, quindi dobbiamo cambiare il modo in cui pensiamo a tutte queste cose e poiché non possiamo cambiare i sistemi terrestri, significa che dobbiamo cambiare i nostri sistemi politici e sociali per rispettarli. Non c’è davvero scelta.
La contrapposizione tra confini reali e artificiali mi fa pensare all’Unione europea: un grande confine artificiale che racchiude vari confini reali, visto che come ricordato parlando di Valencia, alcune aree sono più a rischio di altre.
L’Europa è il continente che si sta riscaldando più velocemente: ci sono molti luoghi che stanno diventando sempre più invivibili; allo stesso tempo, rispetto alle regioni tropicali e a parti dell’Africa e dell’Asia, l’Europa è molto più adattabile. Assisteremo quindi a migrazioni multiple: vedremo persone spostarsi ad esempio dal sud della Spagna, che è già un deserto per la maggior parte dell’anno ora, verso altri luoghi europei; insieme a questa migrazione interna vedremo anche, e lo stiamo già vedendo, migrazione verso l’Europa dall’Africa e da altri luoghi.
L’Unione europea ha la libera circolazione, e questo è uno dei motivi per cui si è così arricchita: la sua produttività è stata molto alta perché le persone possono spostarsi. Il problema, infatti, non è la troppa migrazione, ma la troppo poca migrazione: le persone non si stanno spostando abbastanza dalle aree pericolose. In parte perché lo rendiamo troppo difficile – economicamente, politicamente e diplomaticamente – e dobbiamo facilitare questo processo. In parte è una questione culturale e sociale: le persone non vogliono spostarsi da un posto dove tutti parlano la loro lingua, dove non sono discriminate, dove sanno come funzionano le cose, dove possono trovare lavoro.
Osservando la società attuale, sembra che ci sia poca apertura verso le migrazioni e la libera circolazione delle persone.
Al momento in Europa, e non solo in Europa, stiamo attraversando una situazione molto ostile: l’ascesa dell’estrema destra, molta retorica contro l’immigrazione, molto allarmismo, governi di destra e governi populisti che incolpano i migranti per ogni tipo di problema. Ma questo dovrà cambiare e dovrà cambiare perché, pragmaticamente, la migrazione non scomparirà: la gente se ne renderà conto. La gente si renderà conto che il populismo non è la risposta. Inoltre, tutti questi Paesi stanno affrontando un forte calo delle nascite: hanno in realtà bisogno di più immigrazione, non di meno. Tutti questi nodi verranno al pettine.
Non è possibile fermare la migrazione. Quello che si può fare è causare problemi e difficoltà ai migranti: si possono tenere le persone in condizioni disumane, si può impedire loro di lavorare, ma in realtà questo è un danno per l’economia e non risolve il problema. Questo tipo di politica ha una vita molto breve.
Sarebbe molto più sensato parlare onestamente e trovare pragmaticamente modi per far funzionare le cose: la maggior parte dei problemi si riduce al fatto che gli Stati non stanno fornendo abbastanza alloggi per i loro cittadini, figuriamoci per i nuovi cittadini. Hanno permesso all’industria di stagnare e hanno trascurato altri problemi che non hanno nulla a che fare con l’immigrazione ma che potremmo risolvere anche grazie all’immigrazione.
È strano sentire di soluzioni pragmatiche per quella che, al momento, sembra un’utopia.
Beh, prima di tutto, non penso che il fatto che miliardi di persone dovranno lasciare la loro casa possa definirsi “utopico”: è una tragedia. Ma penso che ci siano modi di gestire questa situazione segnata da profonde disuguaglianze globali e locali, disuguaglianze che il cambiamento climatico continua ad aggravare. L’alternativa è lasciare che i governi diventino disfunzionali, perché non stanno affrontando il cambiamento climatico e non stanno affrontando l’immigrazione: tutto quello che hanno sono slogan, sono la disumanizzazione dell’altro, sono problemi nel mercato del lavoro.
Non si tratta di utopia, ma di essere onesti sui problemi che effettivamente affrontiamo, cosa che nessuno dei leader sta facendo al momento. Si sta ancora parlando di rimanere sotto l’aumento di 1,5 gradi, ma come sarà la tua città nel 2040 o nel 2060? Queste sono le discussioni che dovremmo affrontare adesso, così da poter prendere decisioni difficili su quali luoghi abbandonare, dove investire per adattarsi a queste condizioni climatiche estreme costruendo barriere contro l’innalzamento dei mari o cambiando completamente il corso dei fiumi. Dobbiamo essere pragmatici, ammettere che il mondo in cui viviamo non è l’ideale, ma c’è un potenziale per migliorare le cose, ma non inciamperemo per caso nelle soluzioni.
È ottimista per il futuro?
Penso che tutto questo sia possibile: la maggior parte delle cose di cui scrivo nel libro vengono già fatte in piccoli luoghi, è una questione di come e cosa facciamo. Penso che presto arriverà la consapevolezza che gli impatti climatici non riguardano solo i poveri del Sud globale: sono già molto presenti ovunque e colpiranno tutti, anche nelle zone più ricche d’Europa. È un problema di cui dobbiamo iniziare a parlare seriamente e penso che dovremmo essere in grado di superarlo e di affrontarlo.
Le città che ruolo avranno? Di solito non sono considerate luoghi ideali, tra inquinamento, isole di calore eccetera.
Le città hanno molti problemi: inquinano, consumano molte risorse e così via. Ma allo stesso tempo possono diventare molto migliori. Alcune città si sono trasformate grazie a decisioni semplici ed economiche: a Parigi, per esempio, oggi ci sono più proprietari di biciclette che di automobili.
Le città sono molto adattabili e rappresentano il modo più efficiente dal punto di vista energetico per ospitare grandi quantità di persone. Questo permette alle aree rurali di rinaturalizzarsi e di tornare a essere zone selvagge. Se iniziamo a togliere le persone da questi luoghi dove tutti devono guidare perché non c’è trasporto pubblico, dove il riscaldamento è più inefficiente, dove il bestiame inquina le specie selvatiche con l’influenza aviaria eccetera, permettiamo effettivamente al mondo naturale di riprendersi e di rafforzarsi. Le città sono luoghi di speranza e sono ottime anche dal punto di vista sociale: in città ci si può confrontare con tutti i tipi di persone diverse, sono molto più tolleranti e aperte verso persone di diverse etnie, di diversi background migratori, diverse sessualità, diverse convinzioni politiche. Le fazioni politiche estreme tendono a svilupparsi nelle piccole comunità rurali e nelle città minori, non nelle grandi metropoli.