Intervista al professor Francesco Vona, ospite martedì di confronti 2024, l’appuntamento organizzato dall'Istituto di ricerche economiche
L’impressione, quando parliamo di transizione ecologica, è di un processo tanto necessario quanto gravoso, quantomeno per alcune fasce della popolazione che rischiano di dover pagare il prezzo più alto delle politiche ambientali. Anche in termini di opportunità di lavoro, con professioni che rischiano di sparire, dovendo rivedere gli attuali modelli di consumo e di produzione e la trasformazione delle infrastrutture energetiche, di trasporto e comunicazione, di gestione dei rifiuti eccetera. Una sfida per le singole persone, per le aziende e per la scuola, pensando anche alle nuove professionalità richieste dalla transizione ecologica.
Di queste professioni verdi (‘green jobs’) si parlerà martedì 3 dicembre a confronti 2024, l’appuntamento annuale organizzato dall’Ire, l’Istituto di ricerche economiche dell’Università della Svizzera italiana, per riflettere sulle dinamiche economiche ticinesi e globali. L’appuntamento si terrà, a partire dalle 9.30, nell’Aula Magna del Campus Ovest di Lugano e vedrà la partecipazione di esperti provenienti dal mondo accademico, industriale e istituzionale (Per informazioni: www.ire.usi.ch/it/confronti). Il tema sarà introdotto in apertura dal professor Francesco Vona, professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Milano, al quale abbiamo posto alcune domande.
Professor Vona, che cosa si intende di preciso con lavori, e competenze, verdi?
Innanzitutto dobbiamo definire che cos’è “verde” e non è una cosa ovvia. Pensi a tutto il dibattito nella Commissione europea sulla definizione di “tecnologie verdi”, soprattutto per quanto riguarda nucleare e gas: il nucleare per i francesi è verde, per i tedeschi no; il gas per noi italiani è una tecnologia di transizione perché meno inquinante del carbone, ma ovviamente non è verde in senso assoluto.
In economia ambientale stiamo sviluppando due nozioni di “verde”. La prima riguarda quanto un processo produttivo è intensivo nella produzione di sostanze che danneggiano la salute delle persone o sono climalteranti. Questa definizione permette di identificare attività o lavori marroni. Ad esempio, un minatore del carbone è chiaramente un lavoratore “marrone”.
La seconda definizione, più utilizzata dalle organizzazioni internazionali, identifica come verdi i lavoratori impiegati in attività che contribuiscono a ridurre gli impatti ambientali. Alcuni casi sono chiari: chi monta una pala eolica o installa un pannello solare, oppure chi progetta queste tecnologie. Altri casi sono più complicati: un carpentiere o un elettricista fa un lavoro verde? Dipende dal tipo di lavoro che sta svolgendo: se sta migliorando l’efficienza energetica di un edificio sì, se sta costruendo una casa con classe energetica bassa no.
Il problema vero, qui, è la misurazione. Per i lavori marroni abbiamo buone stime delle emissioni, sappiamo grosso modo quanto inquinano le varie industrie. Per i lavori verdi invece, a parte occupazioni ovvie, ma marginali, come l’installatore di turbine eoliche, non abbiamo misure altrettanto precise. Come facciamo a dire quanto è verde un carpentiere? Questo è il problema principale.
Come si affronta questo problema?
Abbiamo sviluppato un approccio che ora sta diventando lo standard sia nella letteratura accademica che tra le organizzazioni internazionali. Utilizziamo un database americano che contiene informazioni dettagliate sulle mansioni svolte dai lavoratori in ogni occupazione. Per esempio, un lavoratore delle costruzioni svolgerà sia funzioni specifiche per l’efficientamento energetico, come isolare un tetto, sia funzioni non verdi, come costruire un muro. Questo database classifica alcune mansioni come verdi e quindi possiamo calcolare quanto è verde un carpentiere in base alle mansioni che svolge.
In Europa abbiamo una versione preliminare di questi dati, che stiamo contribuendo a migliorare. Inoltre, stiamo utilizzando dati di annunci di lavoro online che permettono di identificare i lavori verdi attraverso l’analisi del testo. Per esempio, sappiamo che “solare” è una parola chiave per i lavori verdi. Il vantaggio di usare gli annunci online è che abbiamo una granularità molto maggiore: possiamo vedere per esempio se un carpentiere in Danimarca è più verde di uno in Umbria. Lo svantaggio è che c’è una distorsione: alcuni settori, come l’edilizia, sono sottorappresentati perché si fanno meno annunci, mentre i lavori più qualificati sono invece sovrarappresentati.
Questi dati, pur con i loro limiti, cosa ci dicono? Con la transizione ecologica c’è una perdita di posti di lavoro?
Prima di rispondere devo precisare che posso dire quello che è successo fino al 2022-23, ma non prevedere cosa succederà da ora in poi. Se la sua domanda, come immagino, si riferisce in particolare al settore automotive, abbiamo stime ingegneristiche che ci dicono che le auto elettriche sono meno intensive di lavoro rispetto alle auto tradizionali, quindi il rischio di una perdita netta di posti di lavoro c’è. Questo potrebbe essere amplificato dal fatto che noi europei non siamo bravi a costruire auto elettriche e dovremmo importarne ancora di più.
Ma quello che emerge finora dai dati, dalle varie stime che stiamo facendo a livello europeo, è che l’impatto delle produzioni verdi sull’occupazione è stato finora positivo. Certamente questo è in parte dovuto ai sussidi, ma anche tenendo conto di questo fattore vediamo che c’è un effetto strutturale positivo, guidato soprattutto dal settore delle costruzioni. Questo settore beneficerà ancora molto in futuro: siamo neanche a metà dell’opera con l’efficientamento energetico degli edifici. Anche tutto il settore delle infrastrutture energetiche per la transizione elettrica e il waste management per l’economia circolare sono settori che impiegano molte persone.
Il vero problema non è tanto la quantità di posti di lavoro, ma la loro qualità. Questi lavori spesso non hanno salari alti, soprattutto nei paesi del Sud Europa e relativamente ai salari dei lavori marroni, e possono essere irregolari. Non è come essere impiegato in Stellantis o Volkswagen, dove sei sindacalizzato, hai le ferie e uno stipendio adeguato alle tue qualifiche.
Qual è l’effetto degli incentivi sui posti di lavoro verdi? Hanno un effetto solo temporaneo o fungono da catalizzatore per un settore che poi diventa autonomo?
Su questo c’è già un po’ di evidenza. Noi abbiamo fatto una ricerca sugli Stati Uniti valutando la parte verde dello ‘stimulus package’ di Obama e abbiamo dimostrato che l’effetto tende a essere di lungo periodo nelle regioni che hanno un livello adeguato di competenze verdi, soprattutto tecniche e ingegneristiche. Alcuni colleghi del Fondo Monetario hanno trovato risultati simili in un lavoro recente.
L’impressione è che si debbano avere le competenze necessarie per riuscire a creare un settore industriale che si auto-sostenga. Questo ci riporta all’importanza delle politiche di reskilling e retraining della forza lavoro, di costruzione delle competenze giuste per l’economia verde, su cui abbiamo lavorato molto per identificare quelle più importanti. Ovviamente bisogna adattarsi al contesto locale.
Mi sembra di capire che la transizione ecologica sia un’opportunità se si è in grado di coglierla, altrimenti si rischia di subirla in malo modo.
In malo modo no, nel senso che non abbiamo nessuna evidenza di effetti drammatici sui lavori marroni o di perdite massicce di posti di lavoro. L’effetto generale sembra essere positivo. Occorre anche considerare che la maggior parte dei lavori non sono né verdi né marroni e che il numero di lavori marroni nell’economia è molto basso, quindi gli effetti della transizione verde sulla distruzione di posti di lavoro saranno comunque modesti. È comunque vero che bisogna pensare alle politiche verdi in congiunzione con altre politiche, e coordinare tutto in modo sensato: la direzione del Green Deal dell’Unione europea è giusta, ma bisogna coordinare una tassa sul carbonio, sussidi alle tecnologie e alle infrastrutture verdi e politiche di retraining della forza lavoro. Le ricerche mostrano che queste politiche sono più accettate dalla popolazione se combinate con misure di riqualificazione della forza lavoro.
Bisogna anche capire gli effetti distributivi. Se si distruggono lavori marroni ben pagati, come nella metallurgia, e si offrono lavori nelle costruzioni che pagano meno e sono meno tutelati, questo è un problema. Ci sono strumenti che funzionano bene, come le “wage insurance” usate negli Stati Uniti per compensare i lavoratori licenziati a causa della concorrenza cinese: se perdi un lavoro da 1’000 euro e ne trovi uno da 800, lo Stato ti dà la differenza per un certo periodo, così resti attivo nel mercato del lavoro.
Per gli ingegneri e gli scienziati, bisogna fare politiche più decise, ad esempio borse di studio per discipline scientifiche vincolate al fatto che, come spesso capita, poi non si vada a lavorare in finanza. O come faceva Obama: se do sussidi per le ristrutturazioni, le imprese edili devono garantire salari più alti ai lavoratori. Sono politiche di buon senso che rendono la transizione più accettabile e creano un circolo virtuoso: più soldi ai lavoratori significa più consumatori per auto elettriche e pannelli fotovoltaici nel lungo periodo.
Servono politiche coordinate tra di loro e che siano bipartisan, in modo da essere credibili e non, come accade in Italia, con incentivi che vanno e vengono a ogni cambio di governo.
L’Europa, dal punto di vista della stabilità politica, sembra essere messa bene.
Il problema è che in Europa si è sbagliato a impostare il Green Deal senza pensare in anticipo ai possibili effetti distributivi. Come dimostrano vari studi di scienze politiche e le crescenti proteste anti-green, i perdenti di una transizione sono molto più attivi politicamente dei vincenti. Gli agricoltori, per esempio, hanno protestato e alla fine sono stati ascoltati. Se avessero pensato prima ai perdenti, facendo per esempio wage insurance o altre forme di compensazione, come sussidi verdi fortemente progressivi o concentrati su edilizia popolare, avrebbero potuto evitare la reazione anti-green che c’è stata in Europa.
In Europa manca inoltre una visione strategica di lungo periodo. Bisogna fare politiche che abbiano un’ampia accettabilità politica, anche a costo di sussidiare temporaneamente i lavoratori delle industrie inquinanti.
Sarà interessante vedere cosa farà Trump, perché molti dei sussidi dell’Inflation Reduction Act di Biden hanno come grandi beneficiari alcuni Stati repubblicani: i governatori di questi Stati accetteranno che Trump riduca i sussidi? Secondo me quei sussidi rimarranno: magari Trump uscirà dagli accordi di Parigi per fare un po’ di scena, ma i sussidi li lascerà. Vedremo.