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Rumble in the jungle, l’Africa al centro del mondo

Mezzo secolo fa, a Kinshasa, si disputò il match di boxe più famoso della storia, che permise a Muhammad Ali di tornare re dei massimi dopo 10 anni

In sintesi:
  • Privato del titolo mondiale e della licenza di combattere a causa della sua renitenza alla leva, Muhammad Ali dovette attendere dieci anni prima di tornare a conquistare la corona dei pesi massimi
  • Lo face, esattamente mezzo secolo fa, sconfiggendo George Foreman in un drammatico combattimento disputato a Kinshasa, a quell'epoca capitale dello Zaire
  • Dopo aver costantemente subito l'iniziativa del campione in carica, Ali – che aveva tutto il pubblico dalla propria parte – riuscì infine a sfruttare al meglio una delle poche occasioni che gli si presentarono
  • A seguire il match dalla tv si calcola che ci fosse circa un miliardo di persone
30 ottobre 2024
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Quando nell’inverno del 1997 Muhammad Ali fu chiamato sul palco della Notte degli Oscar, ad accompagnarlo – e a sorreggerlo per evitare che cadesse come un sacco vuoto per via del Parkinson di cui era ostaggio da quasi quindici anni – c’era George Foreman. Lo stesso George Foreman, ovviamente, che ventidue anni prima, a Kinshasa, aveva invece fatto di tutto – ma invano – per vederlo crollare a terra. La vita, a volte, è proprio strana. ‘When we were kings’ aveva vinto la statuetta come miglior documentario, e l’Academy aveva pensato bene di omaggiare i due vecchi campioni.

Il film, del resto, parlava proprio del match che esattamente mezzo secolo fa, il 30 ottobre 1974, li aveva visti affrontarsi sul ring allestito nella capitale dello Zaire. Si era trattato di un evento enorme, di portata inimmaginabile, e infatti ancora oggi è l’incontro di pugilato più citato e ricordato al mondo, anche da chi con la noble art non ha dimestichezza alcuna.

Stiamo parlando del celeberrimo Rumble in the jungle – rissa nella giungla –, la sfida che Don King, l’iconico promoter avanzo di galera coi capelli sparati per aria, aveva organizzato mettendo di fronte il 25enne Foreman, campione del mondo dei pesi massimi, al 32enne Ali, che la corona l’aveva conquistata e poi difesa vittoriosamente già dieci anni prima, ma che poi era diventata di proprietà di altri boxeur quando lui, per questioni politiche, venne privato della licenza per combattere e fu addirittura arrestato.

Il rifiuto del Vietnam

Muhammad Ali, che quando nacque di cognome faceva Clay e che il padre appassionato di storia romana aveva chiamato Cassius Marcellus, si era infatti rifiutato di farsi arruolare nell’esercito americano, che dopo averlo sommariamente istruito l’avrebbe probabilmente spedito in Vietnam a combattere una guerra in cui proprio non credeva. Quella gente non mi ha mai fatto nulla – disse – non mi ha mai chiamato negro, e dunque non vedo perché dovrei andarmene laggiù a cercare di farla fuori. La sola guerra che voleva combattere era quella a favore dei diritti civili e per l’abolizione della segregazione razziale.

Negli oltre quattro anni di inattività aveva certo ulteriormente maturato la consapevolezza del suo ruolo nel mondo – era infatti divenuto un’icona di tutto ciò che ruotava attorno al Sessantotto –, ma inevitabilmente aveva pure perduto la forma fisica e la brillantezza che avevano caratterizzato tutta la prima parte della sua carriera. E così, quando riprese a combattere, fece un po’ di fatica. Vinceva, ok, ma senza troppo convincere. E quando gli fu offerta l’occasione di riprendersi la corona che gli era stata usurpata – messa in palio da Smokin’ Joe Frazier – fu sconfitto ai punti.

Una grande chance

L’incontro di Kinshasa, dunque, si presentava per Ali come una probabile ultimissima occasione per tornare a impossessarsi del titolo: avesse perso di nuovo, infatti, la sua carriera poteva considerarsi chiusa. Il problema era che George Foreman non era diventato re dei massimi per caso, anzi: picchiatore eccelso, si era impadronito dello scettro detronizzando il già citato Frazier con una facilità impressionante, e ora si presentava al cospetto di Ali dopo due difese vittoriose e con una striscia di ben 40 successi in altrettanti incontri da professionista. E, soprattutto, come detto era un bel po’ più giovane dello sfidante.

Il match era ad ogni modo quanto di meglio gli appassionati potessero sognare, e l’attesa divenne presto spasmodica: per tutta l’estate del 1974 i tifosi non parlarono d’altro, e i bookmaker iniziarono a raccogliere scommesse con un anticipo pazzesco rispetto agli standard. Don King aveva promesso ai due contendenti una borsa di cinque milioni di dollari a testa, a prescindere dal risultato. Poco importa se, al momento della firma dei contratti, non aveva ancora raccolto nemmeno un centesimo: lo spregiudicato (e pregiudicato, fu accusato e condannato per omicidio ben due volte) organizzatore non aveva alcun dubbio che un finanziatore, prima o poi, l’avrebbe infine scovato.

E così fu, in effetti, anche se probabilmente non immaginava che, per racimolare la cifra pattuita coi due sfidanti, avrebbe dovuto andarsene fino nel cuore dell’Africa. L’unico disposto a cacciare così tanta grana, infatti, fu Mobutu – il sanguinario dittatore dello Zaire – che si era assicurato i diritti sull’incontro del secolo per fare un regalo al suo popolo sottomesso, ma soprattutto per coprire di ulteriore gloria se stesso, visto che la megalomania proprio non gli faceva difetto.

Il contrattempo

Il match avrebbe inizialmente dovuto tenersi il 25 settembre, ma un imprevisto costrinse gli organizzatori a spostare la data dell’evento di ben sei settimane. Quando già si trovava nello Zaire per allenarsi in vista dell’incontro, infatti, Foreman si ferì seriamente a un occhio, e i medici ritennero che non potesse combattere. Mobutu, temendo che George, una volta guarito, decidesse di non più tornare in Africa, gli proibì di rientrare a farsi curare negli States come avrebbe voluto, e così entrambi i pugili, coi rispettivi clan, furono costretti a fermarsi nel Continente nero molto più tempo del previsto: un periodo che, come vedremo, Ali al contrario di Foreman sfruttò nel migliore dei modi.

Ciò che non poteva invece essere rimandato – e infatti si svolse nella data prevista – fu il megaconcerto che il dittatore aveva voluto organizzare nell’immediata vigilia del match, anche in questo caso a fini propagandistici. Vi presero parte fra gli altri, profumatamente pagati, artisti del calibro di James Brown, B.B. King, Manu Dibango e Miriam Makeba.

Visto che gli spalti avrebbero dovuto riempirsi soprattutto di spettatori attesi dall’America e dall’Europa – che però non si fecero vedere dato il rinvio del match – Mobutu decise infine di rendere gratuito il concerto affinché le immagini televisive dell’evento mostrassero comunque le tribune gremite. E fu così che gli zairoti, inizialmente esclusi, poterono infine fruire dello show che, ancora oggi, è considerato il più grande mai messo in piedi in Africa, in quanto ad affluenza.

Diplomazia

Muhammad Ali trascorse le supplementari settimane africane – dettate come detto dal rinvio dell’evento sportivo – a contatto della gente: si allenava con giudizio, certo, ma appena fatta la doccia si faceva accompagnare per i quartieri della capitale, dove incontrava molte persone, dispensava gadget e stringeva le mani a tutti. Da sempre abile con la dialettica quanto coi pugni, approfittò di quelle giornate per fare campagna a proprio favore e, al contempo, per screditare il suo rivale agli occhi della popolazione locale. Io sono vostro fratello – andava ripetendo a chiunque incontrasse – io sono un vero africano, proprio come voi.

Foreman invece è un bianco, non sa vivere come un nero, e non vi ama per niente. Non fatevi ingannare dalla sua pelle scura: di noi africani a lui non importa nulla. Quanto bastava, insomma, per trasformare tutti gli indigeni in suoi ammiratori, e per avere – il giorno della sfida – tutto il tifo schierato dalla propria parte.

Foreman, invece, commise due errori fondamentali, che certo non contribuirono a renderlo simpatico alla gente: innanzitutto era sbarcato dall’aereo tenendo al guinzaglio un inferocito pastore tedesco, la razza di cane che laggiù la polizia belga aveva abbondantemente usato per quasi un secolo per tenere a bada le persone; e poi si era negato al pubblico per tutte le settimane trascorse a Kinshasa: in pratica non usciva mai dalla sua stanza d’albergo, dove – si dice – si faceva spedire gli hamburger, introvabili in Africa, direttamente dall’America. Sta di fatto che, per il giorno del giudizio, tutta la città aveva adottato Ali e, al contempo, odiava visceralmente Foreman.

Il combattimento che tutti ricordano

Per seguire l’incontro, quando finalmente poté disputarsi, allo Stade Tata Raphael accorsero in 60mila, mentre si stima che almeno un miliardo di persone – all’epoca circa un quarto della popolazione mondiale – fosse collegato dal divano per la diretta televisiva. A bordo ring c’erano star del cinema, celebri romanzieri, politici di mezzo mondo e pugili del calibro di Frazier e Ken Norton, che erano stati capaci di battere Ali ma che da Foreman erano stati strapazzati, e che dunque, rispondendo alle domande poste nell’imminenza del match da David Frost – il famosissimo giornalista televisivo britannico – indicavano George come favoritissimo. E, del resto, pure gli allibratori, in tutto il mondo, pagavano pochissimo una vittoria del campione in carica. L’attesa, ad ogni modo, pareva non finire mai, dato che per assecondare le esigenze del pubblico statunitense, sintonizzato via satellite, la prima campanella risuonò alle 4 del mattino, ora locale.

Le primissime fasi della battaglia videro Ali, inaspettatamente, portare diversi colpi, come se volesse sorprendere l’avversario, che a detta di tutti era più potente. Foreman, però, non si lasciò impressionare, e prima ancora che finisse la prima ripresa aveva già preso in mano le redini dell’incontro, impedendo al rivale di conquistare il centro del ring.

Dal secondo round in avanti il match ebbe un copione assai semplice: Foreman picchiava come un fabbro e Ali, sempre ai margini del quadrato, non poteva fare altro che limitare i danni, sfruttando l’elasticità delle corde, a cui si appoggiava per meglio assorbire i tremendi colpi che riceveva. Una strategia che, da quella famosa sera, prese il nome di rope-a-dope (il fesso alle corde).

Finale a sorpresa

Si procedette a lungo col campione a sparare ganci e diretti e con lo sfidante – in balia del rivale – che solo di rado riusciva a portare un colpo. Quando l’azione si faceva più ravvicinata, Ali ne approfittava per appoggiarsi a George, sul quale scaricava tutto il suo peso. Com’erano lontani i tempi in cui Ali ‘pungeva come un’ape e volava come una farfalla’: ormai pareva chiaro a tutti che lo sfidante avrebbe vinto quel match soltanto se fosse riuscito a restare in piedi abbastanza a lungo da stancare Foreman. Portare così tanti colpi – specie se vedi che l’avversario incassa bene e non smette di provocarti verbalmente – toglie in effetti un sacco di energia.

E infatti, a un certo punto il campione – vedendo che le sue numerose scariche al corpo non sortivano alcun effetto – perse fiducia in se stesso, si disunì e offrì allo sfidante abbastanza luce per piazzare alcuni colpi pesanti come il travertino. Uno dei quali, all’ottavo round, fu fatale a Foreman: il gancio sinistro gli fece alzare la testa quanto bastava per essere poi finito con un diretto destro al mento che lo fece barcollare e poi crollare, incapace di rialzarsi prima che l’arbitro finisse di contare. Muhammad Ali, contro ogni pronostico, aveva vinto ed era riuscito a riconquistare – dopo un decennio – il titolo che gli era stato scippato dalla politica. E il pubblico, che per tutto l’incontro aveva continuato a cantare ‘Ali buma ye’ – cioè Ali, uccidilo – poté liberare tutta la propria gioia.

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