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Pugni, dollari e un sogno premonitore

Moriva 35 anni fa il leggendario Sugar Ray Robinson, molto probabilmente il più grande pugile di tutti i tempi, anche a detta dei suoi avversari

In sintesi:
  • Sugar Ray Robinson, a detta di molti il più grande pugile di tutti i tempi, barò sull'età per poter ottenere la licenza che lo autorizzava a combattere
  • Leggendarie furono le sue molte sfide contro Jake LaMotta, il famoso Toro del Bronx portato sugli schermi da Martin Scorsese e Robert De Niro
  • Sugar, il cui vero nome era Walker Smith Jr., fu anche cantante, attore e ballerino, ma come artista non ebbe troppa fortuna
12 aprile 2024
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«Doyle non voglio affrontarlo», disse Sugar una mattina presentandosi in palestra, nel bel mezzo della preparazione del match con cui, per la prima volta, avrebbe difeso la corona mondiale dei welter conquistata qualche mese prima, vale a dire nei giorni vicini al Natale del 1946. «Ho sognato di uccidere Jimmy Doyle sul ring», spiegò al suo manager, «e quindi ho deciso di non combattere contro di lui». Per fargli cambiare idea e convincerlo a infilarsi comunque i guanti ci volle l’intervento persuasivo di un paio di preti.

Sarebbe però stato meglio dar retta a quel triste presagio, perché naturalmente andò a finire proprio come Sugar temeva. Un suo gancio mancino all’8° round, infatti, tolse la corrente all’avversario, che si schiantò al tappeto e non riprese mai più conoscenza: morì all’ospedale un paio d’ore dopo, gettando il campione nella disperazione e togliendogli la voglia di boxare. Se tornò a farlo, fu soltanto per destinare alla madre di Doyle le borse dei suoi quattro match seguenti, affinché potesse comprarsi la casa che lo sfortunato figlio aveva promesso di regalarle.

Origine di un nome leggendario

Sugar Ray Robinson – che stando a colleghi del calibro di Muhammad Ali, Jake LaMotta e Joe Louis fu il più grande pugile della storia – era nato col nome di Walker Smith Jr. all’inizio di maggio del 1921 nella Georgia segregazionista, ma per tutta la vita sostenne di essere venuto al mondo a Detroit, dove in effetti il padre e la madre – ex coltivatori di arachidi – si trasferirono in cerca di dignità e lavori più redditizi quando lui era ancora piccolo.

Nel Michigan, ad ogni modo, il ragazzino ci starà poco: dopo il divorzio dei genitori, infatti, seguì sua mamma a Harlem, quartiere nero di New York, dove – per strada – cominciò a fare a pugni. «Volevo diventare medico», dirà ingenuamente più volte nelle interviste, «ma non sopportavo la scuola, e così mi infilai in palestra, per continuare a fare a botte, ma in maniera regolamentata».

Per combattere gli serviva la licenza, per ottenere la quale occorreva avere 18 anni. Lui, però, ne aveva soltanto 16, e dunque barò, presentando i documenti di un suo amico che di nome faceva Ray Robinson: fu così che acquisì il nome con cui diverrà una celebrità planetaria. Sugar, invece, glielo appioppò George Gainford – suo futuro manager – secondo il quale il suo stile di combattimento era dolce come lo zucchero.

Bruciare le tappe

Marito a 16 anni e padre poco dopo, Ray era un pugile dal talento eccezionale e dal carattere assai volitivo: diciottenne vinse i Golden Gloves nei gallo e l’anno seguente si confermò nei leggeri. Dopo la bellezza di 85 successi consecutivi (e nessuna sconfitta) lasciò i dilettanti e raggiunse i professionisti prima di compiere vent’anni, e a vedere il suo quinto match, al Madison Square Garden contro l’ex campione del mondo Zivic, accorsero oltre 20mila persone.

Nel 1942 mise ko un rivale dopo l’altro e, dopo una quindicina di incontri al massimo, incrociò i guanti con Jake LaMotta – il futuro Toro Scatenato – nella prima delle loro leggendarie sei sfide. E, benché concedesse ben 6 kg all’avversario, lo batté ai punti con verdetto unanime. L’italoamericano si prese la sua vendetta pochi mesi dopo, nella rivincita, ma dovette di nuovo soccombere nel terzo incontro, l’ultimo prima della chiamata alle armi. La Seconda guerra mondiale, infatti, andava avanti ormai da un pezzo, ed era giunto il momento che anche gli atleti professionisti dessero il proprio contributo.

Insieme a Joe Louis – che era stato uno dei suoi idoli – Ray trascorse i primi mesi di naja combattendo match d’esibizione per i soldati in procinto di partire per il fronte. Ma quell’esperienza durò poco, perché quando seppe che da un certo giorno in poi ai soldati afroamericani era stato impedito di assistere agli incontri, si rifiutò di salire sul ring. Lo destinarono dunque all’Europa, dove comunque – almeno all’inizio, gli dissero – non avrebbe dovuto mettersi a sparare, ma sarebbe andato avanti a tirare di boxe per intrattenere le truppe fra una missione e l’altra.

Lui, però, si fidava poco e così sparì dalla circolazione il giorno prima di imbarcarsi verso l’Inghilterra. Quando lo riacciuffarono venne incriminato per diserzione, ma incredibilmente riuscì a evitare la corte marziale – con la complicità di un medico prezzolato – sostenendo di essere caduto, di aver picchiato il capo e di non ricordare più nulla.

Mafia? No, grazie

Terminata la Guerra, la vita riprese nel punto in cui era stata interrotta, e cioè con un grandissimo pugile che, però, ancora non aveva vinto alcun titolo mondiale. Il motivo? Ray, avvicinato dalla mafia – che controllava l’intero mondo del ring – rifiutò di accomodare un paio di match, e così dovette faticare molto più di altri per riuscire a procurarsi, finalmente, la sua prima chance di conquistare una corona, quella dei welter, che era vacante e che fece sua (nel match di Natale citato all’inizio) battendo a fatica Tommy Bell, un avversario che nel passato aveva invece superato con una certa facilità.

Nel corso del lustro successivo, Robinson combatté in media 15-20 match all’anno – all’epoca nessuno si preoccupava della salute degli atleti – ma soltanto in pochissimi di quegli incontri mise in palio la sua cintura, che riuscì comunque sempre a difendere vittoriosamente.

Di nuovo contro LaMotta

Sugar e LaMotta si affrontarono per la sesta e ultima volta il 14 febbraio del 1951 in un leggendario match che passò alla storia come il Massacro di San Valentino, e che finì sul grande schermo grazie a Martin Scorsese (Toro scatenato, 1980). In palio c’era il Mondiale dei medi (entrambi avevano messo su qualche kg) detenuto da Jake.

Dopo aver lasciato sfogare l’avversario per le prime 10 riprese, Ray prese il controllo del match e nei successivi tre round tempestò il rivale con una serie impressionante di combinazioni violentissime, finché l’arbitro decise, saggiamente, di interrompere la contesa: in 95 combattimenti da professionista, LaMotta venne per la prima volta sconfitto prima del limite, mentre per Sugar (che vinse 5 dei 6 scontri diretti) si trattò della definitiva consacrazione.

Pugile dallo stile ineccepibile, elegante e insieme potente, perfettamente ambidestro e dotato di un ottimo allungo, Sugar Robinson – una volta accaparratasi la seconda cintura – partì per il Vecchio continente per una lunga e assai remunerativa tournée. Si portò dietro un codazzo di ben 13 persone – fra cui i membri di un’orchestra jazz che suonava per lui durante gli allenamenti – e la sua famosa Cadillac rosa, che a Parigi ebbe un successo strepitoso.

Minor fortuna ebbe a Londra, dove Randy Turpin – nel momento migliore della carriera – riuscì a sconfiggerlo ai punti e a sfilargli la corona. Per riprendersi lo scettro mondiale, Ray dovette attendere tre mesi, quando nel newyorchese Polo Grounds, davanti a 60mila spettatori paganti, restituì a Turpin – con gli interessi – tutte le botte che gli aveva rifilato in Inghilterra.

L’assalto al titolo dei mediomassimi

Robinson, preso qualche altro chilo, lanciò la sfida al campione mondiale dei mediomassimi, che ai quei tempi era Joey Maxim. Scenario stavolta era lo Yankee Stadium, immerso nell’umida canicola che aveva fatto alzare fino a 39 gradi la colonnina di mercurio nei termometri. Le condizioni erano così estreme che l’arbitro Ruby Goldstein collassò dopo un paio di riprese e dovette essere sostituito da un suo collega.

Ma a pagar caro le conseguenze di quel clima proibitivo fu purtroppo anche lo stesso Sugar, che dopo le prime 13 riprese era nettamente in vantaggio, ma che poi, al momento di riprendere le ostilità all’inzio del 14° round non fu in grado di alzarsi dallo sgabello e di lasciare il proprio angolo. E così pure lui conobbe l’onta del primo ko in carriera prima del limite. Non solo: quella sera del 1952 decise pure di ritirarsi per dedicarsi alla carriera di cantante e ballerino.

Record impressionante

Come artista, però, non ebbe successo e così, tre anni più tardi, decise di tornare sul ring. E lo fece pure bene, considerato che in breve tempo riuscì a riconquistare la corona mondiale dei medi, strappandola a Bobo Olson, che superò per la quarta volta in carriera. Sugar continuò a combattere con alterne fortune per altri dieci anni, finché, ormai 44enne, nel 1965 decise di smettere definitivamente col pugilato: aveva vinto 174 incontri (109 per ko), ne aveva persi 19 e per 6 volte aveva pareggiato. Aveva mantenuto il titolo dei welter per 5 anni e per 5 volte era riuscito a conquistare la corona dei pesi medi.

Nella vita non era stato troppo saggio, e dunque presto si ritrovò senza un quattrino: aveva dissipato almeno cinque milioni di dollari. Gli ultimi anni, segnati da qualche comparsata al cinema e in tv – ma anche dal diabete e dall’Alzheimer – certo non fecero onore al campione che aveva affascinato per oltre un quarto di secolo critici e appassionati, ma che soprattutto – cosa assai rara – aveva ricevuto i migliori attestati di stima proprio dai suoi colleghi e avversari. Sugar Ray Robinson morì in California 67enne il 12 aprile di 35 anni fa.