George Foreman riapre una delle pagine più importanti dello sport: ‘Vincere quel match non mi avrebbe reso più felice, ma perderlo fu la mia svolta’
Nessuno che ami lo sport potrà mai dimenticare quell'incontro che assegnò il titolo mondiale dei pesi massimi, a Kinshasa, in Congo, oggi terza metropoli più grande dell'Africa con oltre 17 milioni di abitanti. Era il 1974, quando George Foreman e Muhammad Ali salirono sul ring per quel match che ha ispirato libri e film, uno dei quali (Quando Eravamo Re) ha vinto l'Oscar come miglior pellicola-documentario. Quella leggendaria sfida ha cambiato la vita di chi l'ha disputato, perché Ali – ‘Il Più Grande’, come si autodefiniva – tornò sul trono del mondo, mentre ‘Big George’ Foreman ebbe una crisi mistica che quasi lo spinse a lasciare del tutto il pugilato. E lo fece, una prima volta tre anni dopo. Prima di mettersi a fare il pastore evangelico, riconquistando poi il titolo nel 1994, a 45 anni, e diventando nel frattempo grande amico di Ali, con il quale, si scoprirà in seguito, ebbe lunghe conversazioni telefoniche. Anche dopo che l'ex rivale aveva cominciato a manifestare i primi segni del male, quel morbo di Parkinson che ne avrebbe caratterizzato la seconda parte della vita.
Oggi, per far capire al mondo intero quanto sia stato importante per lui quel match, George Foreman rivela in una lunga intervista al ‘Telegraph’ che la foto di quel colpo che lo stese a Kinshasa è lo sfondo del suo computer. «Perché quel Knock Out con Ali mi ha cambiato la vita – racconta l'oggi settantaquattrenne pugile americano –. È l'unica foto che ho salvato, quella di Muhammad Ali che mi butta a terra, perché mi sono reso conto di quale grande momento fosse per lo sport. E mi ha umiliato: mi ha reso una persona molto migliore di quanto fossi stato se avessi buttato giù io lui. E non l'ho mai dimenticato».
Il racconto di quella notte africana è ancora vivo nella mente di ‘Big George’. «Ciò che ricordo di più è che ero sicuro che avrei battuto Muhammad Ali in un round, o due o tre al massimo – racconta Foreman –. Avevo sconfitto facilmente José Roman, Ken Norton e Joe Frazier, e gli ultimi due avevano sconfitto Muhammad. Quindi non avevo paura». Sul ring, però, le cose non andarono come pensava. «Ce l'ho messa tutta per abbatterlo entro tre round, e dopo la quarta ripresa ricordo che ero scioccato dal fatto che fosse ancora in piedi, mentre al quinto round ero davvero sbalordito. Fu dopo sei riprese che mi resi conto che non sarebbe mai andato al tappeto, era l'essere umano più volitivo che avessi mai incontrato, dentro e fuori dal ring».
Fu una sconfitta dolorosa, e non soltanto per il colpo che lo mandò al tappeto. «Quello fu il momento della svolta. Non ero un uomo felice dopo aver battuto Frazier, e se avessi battuto Ali ancora non sarei stato un uomo felice, una vittoria in più non mi avrebbe reso diverso, ma perdere quell'incontro mi ha dato una rabbia come nessun’altra cosa prima. Non soltanto avevo perso il titolo mondiale: mi sentivo come se avessi perso il nucleo di me stesso. E non sapevo quanto fosse importante fino a quando non ho perso il match e la corona di campione del mondo». Perché anche un colpo che ti mette ko può cambiarti la vita, «e Muhammad – aggiunge Foreman – ha salvato la mia».