laR+ IL COMMENTO

La piazza che spiazza

Già si invita da più parti a non tirare troppo la corda, come se pretendere il dovuto fosse considerato un ammutinamento: ma ci sono alternative?  

In sintesi:
  • Nel paese dei ‘non luogo a procedere’ da anni si cammina sul posto
  • Si sa, la politica è l’arte del compromesso
  • C’è però chi a questo scenario non riesce ad adattarsi passivamente
Ricordi non lontani
(Ti-Press)
18 settembre 2024
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Nella pagina delle opinioni di questo giornale, lo scorso 3 settembre l’avvocato Marco Züblin ha proposto una riflessione sul tema dell’astensione al voto come segno di protesta. Specificando sin da subito che “non la pratico ma ci sto pensando”, Züblin affronta provocatoriamente una questione importante, quella del rapporto di crescente sfiducia del cittadino medio verso una classe politica (democraticamente scelta, per carità) che non perde occasione di dare di sé, in una serie di episodi ben noti, un’immagine di sconfortante pochezza. Non si vuole qui generalizzare, e si dirà anche subito che l’ipotesi suggerita da Züblin contiene proprio le chiavi del meccanismo che vorrebbe contrastare, visto che, come ben sappiamo, l’astensionismo favorisce regolarmente e matematicamente chi già comanda e vuole continuare a farlo. Sta di fatto, però, che con la sua polemica proposta di un astensionismo programmatico ed estremo, che metta in crisi “il sistema”, Züblin individua, indirettamente, quella che è e rimane, nel nostro Cantone, una questione politica sempre più inquietante ed evidente: la mancanza di un’opposizione politica istituzionale di una certa significativa incidenza che, in democrazia, dovrebbe garantire il dibattito e il confronto di idee.

Nel paese dei “non luogo a procedere” da anni si cammina sul posto, anzi si retrocede; gran parte delle forze partitiche condividono “responsabilità di governo” e appare quasi paradossale che a far la voce grossa, antigovernativa (ma ancora per poco) sia il partito che in definitiva già detta legge, quello dei decreti reiterati e del mantra dei tagli alla spesa pubblica. Dall’altra parte dell’emiciclo i due parlamentari dell’Mps sventagliano interrogazioni ormai quotidiane, vista la crescente frequenza di “casi” che andrebbero discussi e affrontati seriamente ma che l’esecutivo accoglie ormai come fosse la pubblicità nella bucalettere di casa, oppure (nella migliore delle ipotesi) rinviando una presa di posizione a “quando la giustizia avrà fatto il suo corso”. Inutile ricordare in che condizioni si trovi attualmente la giustizia di casa nostra. Ma tant’è: da destra come da sinistra si rinvia a procedimenti penali o amministrativi con comunicati (magari affidati all’avvocato di fiducia di un ministro) che impugnano e giustificano il silenzio di fondo, accusando pesantemente chi solleva le questioni: e vai con la “panna montata” e con il “fango sulle istituzioni” attribuiti naturalmente agli avversari politici, a sindacati che fanno il loro semplice lavoro di difendere un docente licenziato, e soprattutto ai media (non tutti, diciamolo, solo quelli “mainstream”).

Sicché, fra panna e palta, in Parlamento è tutto un discutere non tanto del merito dei vari dossier ma di come adattarli per ottenere maggioranze, perché, si sa, la politica è l’arte del compromesso. C’è però chi a questo scenario sempre più avulso dalla realtà quotidiana dei cittadini, non riesce ad adattarsi passivamente. Sono quelli che “scendono in piazza”, erredipizzati direbbe qualcuno evocando la Rete di difesa delle pensioni pubbliche che negli ultimi anni e mesi ha inciso non poco nell’indurre anche i tradizionali sindacati a sostenere battaglie pubbliche di opposizione alla politica salariale e pensionistica nei confronti del personale dello Stato. Ma apriti cielo, già si invita da più parti a non tirare troppo la corda, come se pretendere il dovuto fosse considerato un ammutinamento, la difesa di presunti “privilegi”, dimenticando (o sottacendo) il fatto che manifestare in piazza non è una moda (come è riuscito a dire Gianni Righinetti) ma un diritto democratico, cui oggi più che mai devono ricorrere quei cittadini che vorrebbero (e non trovano) una politica o un partito che in sede istituzionale li sappia rappresentare. La piazza diviene così, uno spazio pubblico di dibattito e confronto che non solo appare alternativo alla sempre più opaca pratica consociativa istituzionale, ma che torna anche a offrire, “dal basso”, un luogo fisico indispensabile perché una serie di rivendicazioni possano unire esigenze e vissuti individuali dentro un progetto collettivo. Certo, la piazza può spiazzare, preoccupare e far scricchiolare scranni e strapuntini: ma ci sono alternative?

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