La piazzata all’Olimpico non è piaciuta ai dirigenti. Max paga la gestione scellerata dell’ultimo triennio: tante scuse, poco gioco, nessuna autocritica
Il comunicato è laconico: “Massimiliano Allegri non è più l’allenatore della Juventus”. Arriva alle 17.36 di un venerdì 17 maggio, e se il tecnico livornese ha detto più volte di non essere superstizioso, beh: è un buon giorno per cominciare a esserlo. Non è un fulmine a ciel sereno, una notizia che scuote all’improvviso il mondo del calcio mentre si prepara all’aperitivo. Sono ore che i giornali anticipano, raccontano di riflessioni in corso, di avvocati al lavoro per vedere se ci sono gli estremi per il licenziamento per giusta causa (non sembra), della famiglia Agnelli-Elkann che discute su quando e come staccare la spina all’Allegri bis, il secondo ciclo di un rapporto durato in tutto 8 anni e 12 trofei (5 scudetti, 2 Supercoppe e 5 Coppa Italia).
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Ultimo sorriso, ultima vittoria
Ci sono state così tante anticipazioni, retroscena e possibili scenari che a un certo punto, più passavano i minuti, più sembrava quasi che non sarebbe successo, che anche questa volta Max, come viene chiamato bonariamente dagli amici e malignamente dai nemici, ce l’avrebbe fatta a sfangarla, che magari – addirittura – non solo avrebbe resistito a questa tempesta, ma sarebbe rimasto al timone anche per la prossima stagione e poi quella ancora, chissà per quanto. Invece questa volta è stato troppo.
Allegri paga inevitabilmente una serata di vittoria trasformata in una di ordinaria follia. Come ha scritto la società: “L’esonero fa seguito ai comportamenti [...] ritenuti non compatibili con i valori della Juventus”. Il riferimento è a quello che è successo durante e dopo la finale di Coppa Italia con l’Atalanta, quando Allegri, semplicemente, ha dato di matto. I primi bersagli sono stati gli arbitri della partita, inseguiti e insultati fino a farsi cacciare. E, dopo il rosso, la sua reazione è stata ancora più sguaiata se possibile. Allegri si è tolto la giacca, stropicciato la camicia, è andato faccia a faccia col quarto uomo digrignando i denti; hanno dovuto allontanarlo di peso per evitare che diventasse manesco.
È uno spettacolo eccessivo, ma è appena l’inizio. Nei festeggiamenti si scopre che la rabbia di Allegri è onnicomprensiva, che vuole usare la vittoria della Coppa Italia per togliersi tutti i sassi dalla scarpa.
La festa Scudetto del 2015, tempi felici
Il primo a pagare è il Football Director Cristiano Giuntoli, reo di essere l’uomo che vuole mandarlo via, allontanato dai festeggiamenti con gesti eloquenti a favore di telecamera. Poi tocca al direttore di Tuttosport Guido Vaciago che, come raccontato da lui stesso sul suo giornale, è stato aggredito da Allegri nella zona stampa. L’allenatore della Juventus l’avrebbe spintonato e strattonato, invitandolo a scrivere la verità (?), apostrofandolo come “direttore di m….” e minacciando di strappargli “tutte e due le orecchie”. In ultimo avrebbe aggredito una procuratrice federale e, non contento, danneggiato a calci del materiale fotografico presente all’interno dello stadio (che la Juventus si sarebbe impegnata a rimborsare).
Ma perché tutto questo? Forse Allegri lo spiegherà con parole sue nei prossimi giorni, ma la ragione è indubbiamente da ricercare nella mancata accettazione del distacco, che la Juventus lo avrebbe esonerato a fine della stagione come si diceva da più parti. Se ne parlava da mesi e c’è già il nome del sostituto (pare), quel Thiago Motta allenatore del Bologna dei miracoli, che tra l’altro lunedì affronta i bianconeri nella penultima giornata di Serie A (e, secondo i maligni, evitare il confronto tra i due è stato un altro motivo per anticipare l’esonero). Allegri si è sentito tradito, scaricato in maniera brutale da una società che per lui è più di un datore di lavoro, è praticamente casa. Ma, nel calcio, casa non esiste. Allegri non ha fatto i conti con una Juventus che non poteva accettare tutto perché lui non è il figlio prediletto, o almeno non lo è più.
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Con Ronaldo, un rapporto mai sbocciato
Insomma è ironico, o forse no, che tutto questo sia avvenuto nel giorno più bello dei 1’085 del secondo ciclo di Allegri sulla panchina della Juventus. Il giorno dell’unico trofeo alzato in tre anni, al termine di una partita giocata bene e vinta contro un avversario forte e che tutti davano per favorito. Allegri avrebbe potuto celebrare da signore, magari punzecchiare una dirigenza che non lo ha difeso in questi mesi, che sicuramente non è stata perfetta nella comunicazione privata, che avrà anche le sue colpe. Ma Allegri quando le cose non vanno come dice si trasforma, diventa combattivo e anche un filo sgradevole.
È il volto che i tifosi hanno visto più spesso in questo secondo ciclo, che è stato più ombre che luci, più tragedia che commedia. Non solo per colpa sua va detto: in questi anni la Juventus ha subito processi penali e sportivi, ha visto scappare l’investimento più oneroso della sua storia, Cristiano Ronaldo, come se fosse una barca che affonda. Ha avuto punti tolti e restituiti, infortuni gravi e squalifiche per doping e ludopatia. Sono stati anni difficili fuori dal campo, ma paradossalmente lo sono stati di più dentro al campo. Anche se tutto girava male, la Juventus ha avuto in questi tre anni una rosa forte, la più pagata in Serie A, una squadra in cui convivono giovani talenti e altri calciatori di alto livello. Eppure in campo non si è visto, anche più dei risultati, Allegri non ha mai dato l’idea di sapere dove stava andando, di avere un progetto che avrebbe portato prima o poi a vincere di nuovo.
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Uno striscione pro Allegri nel 2019, dopo il primo addio
In 149 partite sono arrivate 80 vittorie, 34 pareggi e 35 sconfitte. Un bottino apparentemente non terribile, ma se le vittorie erano sempre striminzite e difese con i denti, le sconfitte sono state umilianti: scherzati dal Villarreal e dal Maccabi Haifa in Champions League (non certo il Real Madrid), presi a pallate da Milan, Napoli e Inter a turno in campionato, usciti col mal di testa anche dal confronto col Siviglia in Europa League. In ognuna di queste sconfitte i giocatori sono apparsi scarsi, le idee poche, i principi zero. Allegri parlava di abbassare la testa e lavorare, che il meglio sarebbe arrivato, ma questo meglio non è arrivato. Anche questa stagione è stata particolarmente indicativa: una lotta impari con l’Inter fino a febbraio, poi dopo la sconfitta netta il crollo. Il continuo ripetere che l’avversario era più forte, che era stato costruito per vincere, che loro invece erano giovani e avrebbero vinto più avanti.
In tutto questo non si è accorto che la Juventus stava perdendo la sua identità, polarizzata dalla sua figura. Non c’era più un obiettivo comune, una tifoseria unita e compatta. Non si tifava Juventus, ma pro o contro Allegri. Da una parte i tifosi annoiati dal suo gioco che disertavano lo stadio e tifavano contro, dall’altra i fedelissimi che lo avrebbero seguito all’inferno, convinti che la sua Juventus arcigna e sparagnina fosse l’unica possibile per tornare a vincere e che divertirsi guardando una partita di calcio fosse sbagliato.
Questa è forse la sua colpa più grave. Max ha provato a convincere tutti che se la sua squadra giocava male e vinceva era così che doveva andare, il calcio non è filosofia, ma se giocava male e perdeva, allora c’era qualcos’altro che non andava, non era mai colpa sua. È stato capace di accusare i giovani, scaricare le responsabilità sul mercato, cercare scuse sempre più creative e differenti. Il primo anno non si poteva vincere perché era il primo anno, il secondo anno perché erano tutti distratti dai processi, il terzo anno perché la squadra non era abbastanza forte. In estate l’obiettivo era vincere, poi in autunno diventava il quarto posto. Ha mandato veline a giornalisti di fiducia in cui criticava il mercato, i giocatori, la dirigenza. Non c’è una singola volta in cui ha detto: è colpa mia. Una mancanza strana, se poi – come Luigi XIV con lo Stato – la Juventus era lui.
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Allegri dopo la finale persa dalla Juve contro il Real Madrid
Allegri è tornato a Torino con la promessa di far tornare la Juventus quella di un tempo, ma ha fallito e chissà che idea aveva della sua vecchia Juventus o della Juventus in generale. Non è solo un fallimento sportivo, ma piuttosto uno di metodo. Ha cercato più di avere ragione che di vincere, ma la ragione è dei fessi. Ha convinto alcuni ma non altri. La sua sfortuna è che, tra quelli che non ha convinto, ci fosse la nuova dirigenza, quella burocratica chiamata a sostituire Andrea Agnelli, quello che nel 2021 l’aveva voluto allungandogli un contratto da quasi 9 milioni l’anno per 4 anni, un tempo lunghissimo nel calcio.
Per i tifosi rimane un allenatore che ha dato tanto, ma forse preso ancora di più. Era ora che finisse, ma poteva certamente finire meglio di così. La fine è importante in tutte le cose è scritto nel Codice dei Samurai. Forse sarà per la prossima volta.