L’Atalanta, bella e criticata, rompe la maledizione alzando l’Europa League. Ma chi l’attaccava non capiva il senso del suo gioco e della sua identità
Siamo abituati che nelle partite di calcio uno ci legge sempre quello che vuole, un po’ come nei biscotti della fortuna e nell’oroscopo. La vittoria dell’Atalanta in Europa League mette per una volta certi discorsi in fuorigioco, in primis quello per cui il suo allenatore Gian Piero Gasperini – nonostante otto stagioni incredibili per gioco e risultati (tre terzi posti, tre finali di Coppa Italia, una semifinale di Champions League svanita nei minuti di recupero contro il Psg) alla guida di una cosiddetta provinciale – alla fine non valesse granché perché non alzava trofei e perdeva finali di Coppa Italia con squadre più ricche, blasonate e attrezzate. Eppure quelle finali le aveva raggiunte guidando l’Atalanta, non il Milan o la Juventus. Inoltre giocando un calcio libero, piacevole, a tratti esaltante, e valorizzando calciatori che altrove non avevano fortuna o non erano stati messi nelle condizioni di brillare.
E qui c’è un altro equivoco che la finale di Europa League fa emergere con prepotenza in superficie, quello per cui Gasperini sarebbe un malato di tattica che incasella il talento nel suo spartito e non funzionerebbe con i grandi giocatori, con le grandi squadre (la sua avventura in un’Inter prosciugata dal ciclo di Mourinho durò cinque partite, ed è ingiudicabile).
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Il gol dell’1-0 di Lookman
Ma, si sa, il calcio – come quasi tutto ormai, dalla politica in giù (o in su, verrebbe da dire con i tempi che corrono) – è tagliato con l’accetta, diventato una guerra tra bande: giochisti contro risultatisti; allegriani e mourinhisti contro guardioliani e dezerbisti.
In mezzo sembra che non possa esistere nulla: invece esiste, e Gasperini ne è un ottimo esempio. Un allenatore che sicuramente ha un’idea dei principi di gioco molto netta, per certi versi quasi oltranzista (grande intensità, pressing alto, ricerca dell’uomo contro uomo a tutto campo, difesa proattiva con sganciamento in avanti dei centrali, sfruttamento delle fasce laterali), ma in cui i giocatori di maggior talento non vengono repressi, anzi, sono sempre riusciti a dare il meglio: Ilicic, Muriel e Gomez hanno vissuto a Bergamo i loro anni migliori, facendo meraviglie; e anche il tridente sceso in campo nella finale di Dublino, con Scamacca, Lookman (il Maradona della finale) e De Ketelaere ha già fatto vedere quest’anno cosa di buono può fare, promettendo ancor di più per il futuro dopo le innegabili difficoltà nell’esplodere di tutti e tre con altre maglie e altri allenatori. Scamacca aveva appena fallito al West Ham, Lookman – che da ragazzino sembrava un predestinato – si era perso al Red Bull Lipsia e non si era ritrovato al Leicester, De Ketelaere, arrivato al Milan come il nuovo Kakà, era già stato bollato come un bidone dopo una manciata di mesi.
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La festa degli atalantini dopo il triplice fischio
Questa capacità di modellare i propri principi di gioco quel tanto che basta per mettere a proprio agio i talenti che ha a disposizione è un grande merito di Gasperini, che – ricordiamolo – è stato di gran lunga l’allenatore più influente degli ultimi 15 anni di Serie A (non a caso alcuni degli allenatori più interessanti sono stati suoi ex giocatori, da Juric a Palladino a Thiago Motta) e anche in Europa, dove molti lo hanno studiato, copiato e più volte elogiato.
Se la Serie A ha rimesso la testa fuori dopo anni difficili si deve in larga parte a lui, e al fatto che gli altri allenatori hanno dovuto inventarsi nuovi modi di attaccare, e soprattutto difendere, per disinnescare la sua Atalanta. Questo progresso tattico, una specie di salto quantico rispetto a una decina d’anni fa, oggi è sotto gli occhi di tutti. E se tu influenzi il mondo di cui fai parte fino a rivoluzionarlo, beh, il tuo posto al sole dovresti averlo comunque (basti pensare all’Olanda degli anni Settanta). E invece no. I detrattori hanno criticato, sbertucciato e gufato il Gasp fin dentro a questa finale con il Leverkusen perché avevano un solo modo per delegittimarlo, sottolineare che “ok, il bel gioco, le partite in battere e levare e i complimenti, ma le vittorie”? Una volta alzata l’Europa League, però, la foglia di fico è caduta, mostrando, finalmente, le pudenda dei critici e la fragilità delle loro argomentazioni.
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Il Gasp festeggia in campo
Resta l’etichetta di grande antipatico: che Gasperini sia ruvido, lamentoso (quale allenatore di Serie A non lo è?), rompiscatole (lo ha ammesso lui stesso l’altra sera) e poco incline a piacere per forza al prossimo è vero. Ma se a lui non si è mai perdonato nulla, ad altri allenatori con la bacheca piena si è permesso di tutto (come troppo spesso si fa con i potenti, non solo nel calcio): Lippi, Mourinho, Allegri, Capello, lo stesso veneratissimo Cruyff hanno dato il peggio, salvo essere assolti d’ufficio, come se coppe e campionati fossero dei salvacondotti.
Se poi usciamo dal campo ed entriamo in un paradosso, lì c’è la lezione forse più grande che l’Atalanta ha dato al calcio e alla cultura della vittoria. Ovvero che i nerazzurri erano un esempio virtuoso e vincente anche quando non vincevano (non a caso Gasperini a caldo, a gara finita, ha detto “non è che sono diverso da quel che ero oggi pomeriggio”). Quella lezione era sotto gli occhi di tutti, prima ancora che i bergamaschi alzassero finalmente una coppa. Eppure qualcuno si è ostinato a non vederla (invidia? Miopia? Forma mentis?), perdendosi gran parte del divertimento e delle soddisfazioni che dà il calcio, e pure la vita se vogliamo allargare il discorso. Anche perché non si può non allargare: il gioco e lo spirito dell’Atalanta non sono solo un modo di intendere il calcio, ma una specie di manifesto politico, la cosa più vicina a una rivoluzione dal basso.
“La sinistra riparta da Gasperini”, si potrebbe azzardare riprendendo un mantra ormai talmente abusato da essere diventato meme tra gli orfani di un’ala politica che si riempie la bocca di ideali, ma nei fatti ha dimenticato la meritocrazia e ogni forma di riscatto sociale (rappresentate invece benissimo, nel suo ambito, dal club bergamasco). Siamo sicuri che valga più una (due, quattro…) Champions League del Real Madrid che un quarto di finale dell’Atalanta? Che pesi più uno Scudetto del Milan in otto anni che tre terzi posti a Bergamo? Come suonano oggi le parole di Andrea Agnelli alla vigilia della poi abortita Superlega quando disse che non era giusto che in Champions ci fosse l’Atalanta perché aveva fatto bene in campionato un anno, mentre chi ha tradizione e blasone (e spesso anche più soldi, gestendoli malissimo, proprio come la sua ultima Juve) rischia di restare fuori?
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L’emozione del presidente Antonio Percassi
Se si pensa alla disparità di risorse tra le grandi e l’Atalanta, è un miracolo non solo che sia dov’è, ma che fosse dov’era quando non alzava al cielo una coppa, sfiorandole solamente. Non a caso sempre Gasperini ci ha subito tenuto a dire che “quest’anno hanno vinto anche il Bologna, il Lecce e il Verona”, che hanno raggiunto i loro obiettivi “senza fare debiti” e giocando un calcio che rispecchia il credo dei loro allenatori. Certo, ce l’aveva con l’Inter, vittoriosa, ma indebitata, rea di non avergli dato a suo tempo una vera chance rendendo quel passaggio in nerazzurro indigesto e di fatto bloccando la sua carriera (con quella frase fatta che gli è rimasta appiccicata addosso: “Non è un allenatore da grande squadra”, quando era piuttosto il contrario, era quell’Inter che non era pronta per lui).
L’Atalanta è figlia di un progetto e di un’ambizione in cui molti – a vari livelli – possono riconoscersi, dal Lugano di Mattia Croci-Torti all’Union Saint-Gilloise in Belgio, dall’Union Berlino, risalito dalla quinta serie fino a giocare l’ultima Champions, al Brest, che si è qualificato per la prossima. E torniamo lì: sicuri che il terzo posto in Ligue1 del piccolo Brest valga meno del titolo scontato del ricchissimo Psg?
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La rete del definitivo 3-0
L’Atalanta e le sue sorelle ci ricordano che quella determinazione nel credere in quel che si fa – e poi, va da sé, farlo bene – è già una vittoria: che un articolo de laRegione abbia meno chance di uno del New York Times di vincere un Pulitzer è ovvio, ma non per questo non bisogna cercare di scriverlo nel miglior modo possibile. E questo vale per ogni lavoro, hobby, relazione o attività umana: bisogna impegnarsi per fare le cose bene e che ci somiglino il più possibile. E che alla fine arrivi o non arrivi un riconoscimento esterno dovrebbe cambiare poco, perché lo dovremmo sapere benissimo da noi quanto valiamo, cosa conta davvero. L’importante, se una sera dovessimo raggiungere un traguardo che sembrava più grande di noi, sarà ricordarsi – proprio come ha fatto Gasperini – che non sarà quello a renderci migliori di quanto siamo oggi, di quanto non saremo il pomeriggio che la precederà.
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‘Oltre il Risultato’