Un progetto degli studenti dell'Accademia di architettura nel cuore della città richiama l'attenzione sui migranti e la necessità di un’altra ospitalità
Nello spiazzo nel ‘cuore’ della Cittadella della cultura di Chiasso c’è un gran via vai. Per due giorni, ieri, giovedì, e oggi, venerdì, l’area sarà ‘occupata’ da studenti e studentesse dell’Accademia di architettura di Mendrisio. Nel bel mezzo della cittadina si sta costruendo, infatti, la ‘Casa dell’ospitalità’. E a dare una mano è stata chiamata anche la comunità locale – quella dei chiassesi e quella dei richiedenti l’asilo –, che ha accompagnato ragazzi e ragazze fin dall’inizio del loro progetto di studio. Un pezzo dopo l’altro l’installazione prende forma; e per qualche ora l’utopia diventa realtà. Raggiungere questa sorta di zona franca dell’accoglienza non è stato semplice. Ma questi futuri architetti, un gruppo nutrito di oltre una ventina di giovani, ci hanno messo l’anima, come ci dicono alcuni di loro. Li troviamo tutti intenti a realizzare il padiglione principale, atto conclusivo del laboratorio che ha scandito l’intero semestre autunnale e che è espressione dell’Atelier diretto dai professori Vanessa Lacaille e Mounir Ayoub, affiancati dagli architetti Ginevra Masiello e Tania Perret. Un lavoro accademico che, questa volta, ha voluto lasciare una traccia, a Chiasso come nella vita dei migranti coinvolti nelle diverse iniziative. E che ha dato vita anche a una Associazione, ‘Fabbrica di Ospitalità’.
Tra quotidianità e immaginario: oggi vi è una bella differenza tra la politica migratoria e il sogno di una accoglienza che sa di ospitalità. Ed è proprio da lì che ha preso le mosse il progetto accademico. «Abbiamo proposto agli studenti di lavorare sul tema dell’ospitalità nella realtà urbana. E ben presto – ci spiega la docente, Vanessa Lacaille –, ragionando sulla realtà ticinese, in cui l’Accademia si trova, siamo approdati alla questione migratoria». I giovani dell’Atelier ci sono tuffati a capofitto, come testimoniano Eva, fiorentina, e Victoria, siriana. Come avete accolto questa sfida progettuale?, chiediamo loro distogliendole un momento dalla creazione del padiglione. «Con molto interesse, venendo dall’Accademia – ci dice Eva –: è la prima volta che un Atelier si occupa più nel concreto della situazione attuale sul terreno. Penso sia questa la motivazione che ha spinto un po’ tutti noi a scegliere di parteciparvi. Penso sia una delle prime volte nel nostro mondo accademico in cui tocchiamo con mano una realtà».
Una immersione nel reale presa molto sul serio da ragazzi e ragazze, andando a visitare, dall’esterno, i Centri federali d’asilo e i luoghi di accoglienza – «non siamo potuti entrare; solo all’interno del Centro Pasture in costruzione» –, intessendo una relazione con richiedenti l’asilo e popolazione del posto. «Di solito realizziamo tanti progetti che restano sulla carta – ci spiega ancora Eva –. Qui, invece, anche solo avere la possibilità di andare in un bar e lasciare un ‘caffè sospeso’ – ovvero lasciare in dono un caffè a chi non se lo può pagare, ndr –, ci ha dato modo di fare delle azioni concrete, pur se piccole, che possono avere più effetto di tante grandi intenzioni».
Del resto, si aggiunge Victoria, «questi gesti semplici hanno avuto un significato particolare per noi. Non solo abbiamo conosciuto da vicino la tematica migratoria, ma abbiamo potuto misurarci con una esperienza non abituale per degli studenti». La missione che si è data questo Atelier, d’altro canto, è importante: “Produrre un progetto collettivo” che interpreta “una architettura come atto politico”. E non è poco. «Per me che sono siriana – condivide Victoria –, e mi sento fortunata a essere qui dopo aver passato un vissuto simile a quello delle persone che abbiamo incontrato, mi fa sentire meglio pensare di poter fare qualcosa per loro».
Da futuri architetti, certo, studenti e studentesse non hanno perso di vista la declinazione degli spazi nella realtà migratoria, lasciando, qua è là sul territorio di Chiasso, delle installazioni che valgono degli stimoli anche provocatori, a mo’ di denuncia e sensibilizzazione, come la camera del centro di accoglienza di Cadro riprodotta in piazza Bernasconi, giusto davanti al Municipio. «Anche nella futura struttura di Pasture – ci fa notare la professoressa Lacaille – la concezione degli spazi a disposizione dei richiedenti l’asilo non cambia».
L’impressione, insomma, è stata quella di trovarsi di fronte a “spazi architettonici che alienano, isolano ed escludono”. «Se vi è una differenza, forse – richiama Eva –, è che sinora i centri erano degli edifici riadattati. Sebbene costruito ad hoc pure il nuovo edificio ripropone però le grandi camerate con i letti a castello, mobilio militare, spazi asettici. Sembra più un carcere che un luogo di accoglienza». Studenti e docenti dell’Atelier, non a caso lo hanno messo nel ‘manifesto’ dell’Associazione: “La città contemporanea non è più un luogo di rifugio, ma di rifiuto”.
Ecco che ragazzi e ragazze hanno sentito l’esigenza di andare alle origini del viaggio europeo dei migranti, sino all’isola-frontiera di Lampedusa. «Dopo essere partiti dalla realtà che viviamo anche noi oggi – ci conferma Eva –, ci siamo calati nei luoghi dove approdano i tanti migranti che percorrono le rotte del Medriterraneo. Siamo andati a Lampedusa molto in avanscoperta, senza grandi piani. Ma è stato un momento impressionante: essere lì e vedere dal vivo ciò che sino a quel punto vedevamo in fotografia o in televisione ha fatto molto più effetto. È stato interessante, poi, vedere come per i lampedusani la realtà e la percezione siano diverse. C’è molta più ospitalità e umanità di quanto non si pensi – ci dice –. Certo la gestione dei migranti è pianificata: arrivano in porto, li mettono su un pullman e li portano nell’hotspot. Poi dopo qualche giorno ritornano al porto e vengono trasferiti in Sicilia, per essere poi ridistribuiti sul territorio italiano. La popolazione del posto però è stata la prima a dare una mano. Infatti, vengono organizzati diversi progetti, anche con le scuole – dalle elementari al liceo –, a favore dell’integrazione».
Stando a una narrazione politica che ha preceduto le Elezioni federali, Chiasso era paragonabile a Lampedusa. Voi avete avuto sotto gli occhi entrambe le realtà: cosa ne pensate? «Sono realtà diverse. Lampedusa è un hotspot: lì stanno pochi giorni. Anche la posizione del centro si trova in una gola: i turisti non entrano in contatto con la quotidianità dei migranti. Che paradossalmente non c’è, sebbene tutti ne siano consapevoli», ci racconta Eva. E voi come avete percepito la situazione chiassese in cui vi siete calati? «Dal mio punto di vista i richiedenti asilo vengono un po’ ghettizzati: stipati in queste strutture non c’è nessun tipo di dialogo o relazione con gli abitanti. Anche se alcuni hanno una permanenza molto lunga sul territorio».
La professoressa ribalta la prospettiva. «Se sussiste un punto comune tra i due luoghi (Chiasso e Lampedusa, ndr) – ci rende attenti – è l’invisibilizzazione delle persone, la loro disumanizzazione, che ritroviamo un po’ in ambedue le realtà. Nell’hotspot di Lampedusa, come detto, la permanenza è breve. Ma il dispositivo è lo stesso: l’arrivo, il trasferimento. D’un tratto – rimarca Vanessa Lacaille –, non c’è più umanità, nessun benvenuto, solo una gestione molto tecnica. E qui ritroviamo il medesimo meccanismo, anche se i periodi sono più lunghi. Con una marginalizzazione dei migranti in centri discosti, come a Pasture, e con condizioni di vita non proprie all’abitare. Più che luoghi di accoglienza sono una sorta di depositi. Da lì la difficoltà di socializzare».
Da parte vostra avete, però, cercato di rompere questi schemi gestionali. «Certo – ci risponde con convinzione la docente –: qui ci sono diverse persone che hanno lavorato al progetto. Ma non sono sufficienti». Dal gruppo riunito sul piazzale sul retro del m.a.x. museo si leva una voce, è una attivista dell’Associazione Progetto Aula 13, Francine Rosenbaum. «Nessun vuole conoscere le storie delle persone che arrivano da noi – richiama –. Per loro è difficile, quindi, immaginare un futuro. Non è un caso che molti, troppi, di questi ragazzi arrivano anche a dei gesti estremi. Il fatto di non esistere e non avere prospettive, pur avendo alle spalle una esperienza di vita straordinaria, è disumano. Tra i diritti negati vi è anche quello della scolarizzazione. Di fatto sono dei paria». In fondo, rilancia Victoria, «non si aspettano che la base di una vita normale».
Così l’operato di studenti e studentesse non si esaurirà una volta smontate le installazioni. «Una cosa importante che ci ha lasciato questo progetto – sottolinea Eva – è la consapevolezza che, al di là dell’agire delle istituzioni, dobbiamo responsabilizzarci come cittadini; ricordarci che anche ciascuno di noi ha una presenza politica. Io non potrò cambiare la politica migratoria, ma posso fare la mia parte. Cosa abbiamo imparato dai ragazzi migranti? La resilienza. Infatti, queste realtà invivibili sono spesso vissute, da famiglie, bambini. Ricreano casa».
C’è da credere, insomma, che la ’Fabbrica di ospitalità’ lascerà davvero una traccia. «Grazie al nostro direttore che ha accolto il progetto», tiene a sottolineare il professor Mounir Ayoub. «Noi siamo una scuola che ha molti approcci diversi – motiva il direttore dell’Accademia di architettura Walter Angonese, che ha voluto venire di persona a vedere i risultati del lavoro degli studenti –. E questo è un nuovo approccio che lavora con il sociale, con la società e con la politica, nel suo significato culturale e sociale. Se pensiamo che l’architettura sia anche una possibilità di gestire, lo sappiamo dalla storia, la società, questo è uno degli esempi. Io trovo questa architettura effimera molto importante, perché porta i ragazzi a vedere il quotidiano. Insisto sempre nel dirlo – conclude Angonese –: il quotidiano delle piccole cose è sempre stato fonte di ispirazione per gli architetti. L’ordinario offre un campo di referenzialità molto più vasto rispetto ai soli edifici elitari». E i futuri architetti dell’Atelier lo hanno saputo cogliere appieno.