Come trattare la notizia di una persona che si toglie la vita? Un compito non facile per i giornalisti, ma che se fatto bene previene più del silenzio
È un sottilissimo crinale quello lungo cui sono chiamati a muoversi i giornalisti di fronte a un caso di suicidio. Da un lato, “il resoconto malaccorto di un gesto estremo può stimolare comportamenti di emulazione in persone già a rischio di suicidio”. Dall’altro, il fatto che i mezzi di comunicazione ne parlino “contribuisce a rompere il tabù che avvolge questo argomento e in tal modo concorre a impedire nuovi suicidi”. Il virgolettato è tratto da www.parlare-puo-salvare.ch/media, sito web supportato dall’Ufficio federale della sanità pubblica.
Ieri la Croce Rossa Svizzera - Sezione del Sottoceneri (Crss) ha deciso di prendere ufficialmente posizione con un comunicato stampa – “suo malgrado”, scrive lei stessa – sul caso di Arash, il giovane afghano toltosi la vita lo scorso 11 luglio nel Centro per richiedenti asilo di Cadro che dalla Crss è gestito (v. pagina 7): “I continui attacchi da parte di alcune persone, così come la continua eco mediatica, hanno generato esattamente l’effetto che si voleva evitare, cioè quello del rischio di emulazione. Era il motivo per il quale, oltre al rispetto per la persona coinvolta, Crss aveva deciso di non rendere pubblico il tragico evento”.
Nel sito citato sono riassunti i principali consigli contenuti nella Guida per i professionisti della comunicazione sul tema “media e suicidi” approntata dall’associazione Ipsilon (iniziativa per la prevenzione del suicidio in Svizzera). Il rischio di emulazione aumenta, tra le altre cose, se il comportamento della persona che si è tolta la vita è implicitamente presentato come degno di ammirazione; se si descrive nei dettagli il metodo utilizzato per suicidarsi; se si rimanda al servizio attraverso sommari sensazionalistici; se si specula sulle cause; se l’articolo compare in prima pagina; se si rivela il contesto in cui viveva la persona.
Le ultime direttive vacillano però di fronte a certe dichiarazioni che proprio nel contesto in cui viveva la persona sembrano indicare un problema strutturale con rilevanza da prima pagina: “Alcuni di noi pensano seriamente al suicidio perché qui si sentono come in carcere”. Sono le parole rilasciate a ‘laRegione’ da alcuni compagni di Arash durante il momento di raccoglimento in sua memoria organizzato sabato scorso. Momento che, se la notizia della morte del 20enne non fosse stata portata all’attenzione pubblica dall’avvocata Immacolata Iglio Rezzonico, probabilmente non avrebbe mai avuto luogo.
E così l’esplicita volontà della Croce Rossa di tenere la notizia chiusa tra le mura del centro, a popolare gli incubi solitari di chi è rimasto al suo interno, appare come un rimedio peggiore del male. Le oltre cento persone presenti alla veglia hanno dimostrato ai compagni di Arash – e di riflesso alla sua famiglia – una vicinanza e un interesse che forse non avevano mai conosciuto da questo Paese. E quanto sia importante raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio è un assioma noto.
La Guida per i giornalisti rileva anche che l’effetto emulativo sarà inferiore se si mostrano possibili alternative – ad esempio in che modo la persona interessata avrebbe potuto ricevere aiuto – e se si mette in evidenza il contatto a cui rivolgersi in situazioni di crisi. “Telefono emergenze: 143 adulti, 147 giovani”. Ma per i ragazzi e in generale tutti coloro che risiedono nei centri d’asilo queste e simili indicazioni non bastano. Bisogna far sì che l’intera società, come negli ultimi giorni, resti vigile e in ascolto. Perché l’inferno è essere chiusi in sé stessi. E questi esseri umani spesso lo sono a doppia mandata.