Il serbo dei Nuggets, due volte miglior giocatore Nba, quest’anno potrebbe vincere pure a livello di squadra: Denver è infatti in finale di Conference
Quando è stato scelto dai Denver Nuggets al secondo giro del Draft Nba del 2014, Nikola Jokic aveva 19 anni e stava dormendo nel letto di casa sua. «Non pensavo fosse chissà cosa», avrebbe poi raccontato con l’espressione disinteressata che si porta stampata sulla faccia, «non credevo sarei mai arrivato lì». In realtà a non crederlo erano in molti: basta pensare che quella sera prima di lui vennero chiamati 40 giocatori, ritenuti a vario titolo più forti o con più potenziale e che, quando finalmente il Deputy Commissioner Mark Tatum aveva fatto il suo nome, sulla televisione americana stava passando la pubblicità di Taco Bell, un famoso fast food di cibo tex-mex.
13’695 punti, 4’386 assist e 6’705 rimbalzi dopo, nessuno ha più dubbi su quale sia il posto di Jokic. Il serbo non solo appartiene alla Nba, ma nel giro di qualche anno, a suo modo, l’ha conquistata. Il centro dei Nuggets mette d’accordo quasi tutti: è amato dal pubblico, rispettato dagli avversari e ammirato dagli addetti ai lavori. Recentemente ha sfiorato il terzo premio consecutivo di Mvp (quello dato al miglior giocatore della stagione regolare), un traguardo raggiunto da pochissimi giocatori nel corso della storia.
Il suo, però, non è stato né un percorso facile né uno banale. Per arrivare dove è arrivato, Jokic ha dovuto cambiare mentalità, lavorare duro e far cambiare idea a molti, in una lega dove i giocatori europei sono spesso ancora visti come troppo “soft” per sfondare (un preconcetto che sta cambiando grazie a giocatori come Nowitzki, lo stesso Jokic, Doncic e, dal prossimo anno, il talento generazionale Wembanyama). Dopotutto, quando era giovane, gli scouting report su di lui parlavano chiaro: grande talento, ma fuori forma, lento e non adatto al gioco moderno.
Arrivato negli Stati Uniti un anno dopo essere stato scelto al draft, Jokic ha cambiato le proprie abitudini alimentari, perdendo oltre 20 chili («bevevo due o tre litri di Coca-Cola al giorno» ha raccontato), ha imparato a giocare ai ritmi del basket oltreoceano, più veloce e atletico di quello europeo e soprattutto ha convinto i Denver Nuggets che era lui il giocatore intorno a cui dovevano plasmare la squadra. Fondamentale, si racconta, un viaggio estivo fatto dell’allenatore Mike Malone nel 2017, quando lo è andato a trovare nella sua casa di Sombor, dove i due, tra grandi bevute e lavoro nei campi (la vita fuori dal campo di Jokic sembra un po’ un film di Emir Kusturica), hanno cementificato la loro unione.
Quando la scintilla è scattata, però, è stato tutto un crescendo. Anno dopo anno Jokic è salito di livello, mostrando una competitività feroce, mutuata dalle sfide più o meno violente fatte con Nemanja e Strahinja, i suoi due fratelli, grossi più o meno come lui. Oggi, a 28 anni, Jokic sta vivendo la stagione migliore della carriera, la prima in cui può realmente ambire al titolo di campione Nba. Si è tolto di dosso anche quel po’ di pigrizia con cui ogni tanto approcciava le partite, si fa meno coinvolgere dagli episodi esterni e anche in difesa, pur non essendo il suo punto forte, è notevolmente migliorato rispetto al passato. Nelle semifinali di Conference – vinte dai suoi Nuggets per 4 a 2 contro i Phoenix Suns di Devin Booker, Kevin Durant e Chris Paul – Jokic ha avuto un rendimento eccezionale, da libri di storia di questo sport. Sei partite in cui ha annichilito chiunque provasse a marcarlo, confermando di essere il giocatore più dominante della lega quando si tratta di fare o far fare canestro (per i freddi numeri: Jokic ha chiuso la serie con 34,5 punti, 13,2 rimbalzi e 10,3 assist di media con il 59,4% dal campo, il 44,4% da tre e l’85,4% ai tiri liberi).
Quella vittoria gli ha aperto le porte alla sfida contro i Los Angeles Lakers di LeBron James, una serie al meglio delle sette partite in cui si deciderà chi sfiderà in finale la vincente dell’Est. Denver ha vinto le prime due partite fin qui, quelle giocate in casa ai 1’600 metri di altitudine del Colorado. Se nella seconda è stato Jamal Murray il giocatore decisivo, grazie a un ultimo quarto da 23 punti decisivo, Jokic ha giocato un’ottima gara-2 (ancora in tripla doppia) e soprattutto una meravigliosa gara-1. In quella partita, tiratissima, con 34 punti, 21 rimbalzi e 14 assist ha fatto vedere tutto il meglio del suo repertorio offensivo. Sulla sirena del terzo quarto, in un momento in cui i Lakers si erano riavvicinati nel punteggio, “The Joker” – lo chiamano così per l’assonanza col cognome, ma anche per il ghigno che si porta appresso per il campo mentre scherza con gli avversari – ha segnato una tripla fondamentale dal palleggio con i 208 centimetri di Anthony Davis, il miglior difensore della Nba, addosso. Ha tirato praticamente cadendo di lato, con una strana postura del corpo e la mano dietro la testa, eppure la palla è entrata sfiorando appena la retina, come se fosse il tiro più semplice del mondo. «Rende davvero tutto facile – ha detto il suo compagno Aaron Gordon –, ma al tempo stesso lo rende miracoloso. È assurdo».
Far sembrare semplici le cose difficili è ciò che rende i grandi sportivi tali, e Jokic è quasi diabolico in questo. A vederlo caracollare lungo il campo con i suoi 211 centimetri per 129 chili (peso ufficiale, anche se – come detto – è dimagrito) è uno spettacolo quasi comico, almeno fino a quando non inizia a sezionare le difese avversarie con la perizia di un killer. La verità è che, nella storia di questo sport, i giocatori con le qualità in attacco di Jokic si contano appena sulla punta delle dita. Che sia col pallone tra le mani, o quando si muove per creare spazi ai compagni o quando li guida con i gesti, la versatilità e il talento del centro dei Denver Nuggets diventano un enigma troppo grande per qualsiasi difesa. A domanda su come pensava di fermarlo, l’allenatore dei Lakers Darwin Ham ha risposto, ridendo ma neanche troppo, che avrebbero provato a rapirlo appostandosi fuori casa sua, perché in campo, poi, non è più possibile.
Quando vede il canestro avversario Jokic può fare veramente di tutto: tirare da qualunque posizione in maniera efficiente grazie a una sensibilità nei polpastrelli da pianista; rimbambire di finte il suo marcatore per arrivare al ferro grazie a un equilibrio e due piedi da ballerino; sbagliare e poi prendere il suo stesso rimbalzo saltando poco più di un foglio di giornale. In tutto questo, provare a raddoppiarlo è forse la cosa peggiore che si può fare, visto che Jokic è addirittura un passatore migliore, e soprattutto mettere in ritmo i compagni è la cosa che preferisce fare.
Vederlo passare il pallone è come vedere Federer colpire una pallina da tennis, Messi zigzagare con il sinistro per il campo. È come ascoltare Chet Baker alla tromba o Eric Clapton alla chitarra. Non esiste un passaggio che non può eseguire: che siano outlet pass che attraversano il campo come un proiettile di cuoio, passaggi a due mani dietro la testa che vede solo lui, tocchi fatti al volo con una mano o anche semplici palloni schiacciati a terra per chiudere un pick and roll, ogni passaggio di Jokic sembra come uscire da un arcobaleno, è pieno di colori. Un centro abile nel passare il pallone è una rarità nel basket, ma un centro che è il migliore di tutti a farlo è semplicemente inspiegabile. Col suo gioco, Jokic ha ribaltato molti degli assunti del basket e probabilmente, quando si sarà ritirato, parleremo di lui come del miglior passatore di tutti i tempi. Se infatti di solito i “lunghi passatori” muovono il pallone fermi in post, sfruttando i loro chili e centimetri, Jokic ha la capacità di portare palla lungo tutto il campo, prendere il rimbalzo e far partire direttamente l’azione per poi chiuderla con un assist perfetto che è semplicemente rivoluzionaria. Chi ha provato a spiegare questa magia ha tirato in ballo l’infanzia in Serbia, passata a praticare tutti gli sport possibili e immaginabili. Giocare a calcio gli avrebbe dato una visione più ampia del campo, mentre la pallanuoto quel modo strano di trattare e passare la palla, spesso a una mano, schiaffeggiandola o sparandola con violenza e precisione. Lui assicura che, da quando ha iniziato, ha sempre giocato così, come se fosse il naturale flusso del suo gioco.
Anche perché il suo sport preferito non è nessuno di questi, ma l’equitazione. È una delle diverse peculiarità di Jokic, l’esatto opposto della superstar Nba che immaginate. In estate passa quasi tutto il tempo libero con i suoi cavalli, tanto che nel 2022 ha ricevuto il premio di Mvp mentre era al trotto con Dream Catcher, il primo cavallo della sua scuderia e il suo preferito. Quando smetterà, ha già detto, dedicherà tutto il suo tempo ai suoi cavalli, che intanto iniziano a vincere gare in giro per il mondo. Una passione così forte che, per quanto possa sembrare strano per uno della sua taglia, da piccolo sognava di fare il fantino. Se ha iniziato a giocare a basket, dicono, è stato solo per assecondare le richieste del padre, tanto che fino a 16-17 anni non pensava di diventare un professionista. A convincerlo a provarci per davvero fu Miško Ražnatović, importante agente sportivo serbo che si era innamorato del suo talento.
Viene da dire per fortuna. Forse Jokic non vincerà il titolo in questa stagione, la serie con i Lakers è più aperta di quello che dice il punteggio, visto che la squadra di LeBron è quasi imbattibile in casa; forse, è possibile, Jokic non lo vincerà mai. In un momento in cui però in Nba, e in generale nello sport, si parla di “fallimento” come un termine da estirpare, la storia di Jokic è abbastanza indicativa di come uno sportivo può avere un impatto anche senza necessariamente vincere. Arrivato dal nulla, considerato inadeguato, con un fisico e un atteggiamento rivedibili, Jokic sta dimostrando partita dopo partita che talento e voglia battono qualunque pregiudizio. E lo sta facendo mostrando il più bel basket che potete vedere coi vostri occhi in questo momento storico. Una cosa così, mi viene da dire, vale più di una vittoria.
Keystone
Scontro tra titani con LeBron James