Al Draft, i Los Angeles Lakers hanno scelto il figlio di LeBron James, la loro più celebre star, che da sempre sognava di condividere il parquet con lui
Nella Bibbia è scritto che Dio ‘punisce la colpa dei padri nei figli’, ma anche che ‘il figlio non sconterà l’iniquità del padre’. Le colpe dei padri, quindi, devono ricadere sui figli? Oppure no?
Senza entrare nell’esegesi delle sacre scritture, nelle cose molto più profane del basket Nba si discute di padri e figli da giorni, da quando cioè i Los Angeles Lakers hanno scelto al secondo giro del Draft 2024 – l’evento in cui le varie franchigie selezionano a turno i giocatori giovani che arrivano dal college o dall’Europa – LeBron James Jr.
E LeBron James Jr altri non è che il figlio di LeBron James, il Re, il Prescelto, non solo la stella più luminosa dei Los Angeles Lakers, ma anche uno degli atleti più influenti (e forti) nella storia di questo sport (e di tutti gli altri). I due – 19 anni il primo, 39 il secondo – saranno la prima coppia padre-figlio a giocare nella stessa squadra in Nba: una storia a suo modo anche romantica, se non fosse per le accuse di nepotismo che stanno piovendo da tutte le parti.
Da quando ha iniziato a zompettare piccolissimo nelle varie arene Nba a seguito del padre, Bronny (soprannome assunto a nome, credo per non rovinare la psiche del ragazzo) ha avuto addosso gli occhi di tutti.
A 13 anni a seguirlo a bordo campo c’erano il padre e gli amici, ovvero i migliori giocatori di basket del pianeta; a 15 anni i video delle sue partite avevano puntualmente milioni di visualizzazioni e commenti. C’era chi in lui vedeva una reincarnazione del padre e chi un raccomandato, seppure stesse giocando per la squadra del suo liceo, ovvero la scuola dell’obbligo.
Poi, come se la pressione di essere il figlio del Prescelto non fosse sufficiente da sé, quando Bronny di anni non ne aveva neanche 17, in un momento di debolezza paterna, LeBron pronosticò che in futuro avrebbero giocato insieme in Nba, nella stessa squadra. «Farò tutto quello che è nelle mie possibilità per far sì che accada», aveva aggiunto.
Questa frase sibillina – che magari pronunciata da un altro sarebbe stata niente più che un desiderio, ma LeBron non è certo “un altro” – era stata la pietra tombale sull’obiettività nei giudizi verso il figlio: che fosse diventato un fenomeno o un giocatore mediocre nessuno ci avrebbe più fatto caso o creduto. Il suo destino era arrivare in Nba per decisione paterna.
Dopo quella dichiarazione la carriera di Bronny non è stata particolarmente felice. La scorsa estate, mentre si allenava per arrivare pronto alla sua prima stagione al college, aveva avuto un infarto.
Fortunatamente era stato rianimato e portato d’urgenza in ospedale, dove le sue condizioni erano migliorate. Sull’episodio c’è, giustamente, uno stretto silenzio, ma la causa del malore sembra essere stata un difetto congenito, per il quale è stato operato risolvendo il problema.
Bronny era tornato in campo solo diversi mesi dopo con gli Usc Trojans, la squadra dell’Università della California che aveva scelto per rimanere vicino al padre, ma le cose non erano andate come sperava. La stagione era stata un disastro da appena 5 vittorie e lui non aveva brillato, chiudendo con 4,8 punti di media (tirando col 36,6% dal campo), aggiungendo 2,8 rimbalzi e 2,1 assist. Numeri non certo vicini a quelli del padre (che l’università l’aveva proprio saltata per andare dritto al piano di sopra) o a quelli richiesti a un prospetto Nba.
Si era pensato allora che Bronny sarebbe rimasto almeno un altro anno all’università per costruirsi una reputazione migliore, e invece appena possibile si era dichiarato eleggibile per il Draft. Bronny, l’avrete intuito, non ha il talento del padre e non diventerà uno dei migliori giocatori della storia.
Su di lui i pareri sono divisi e non potrebbe essere altrimenti: per qualcuno può diventare un ottimo role player, ovvero un giocatore di complemento, di quelli che si sacrificano in difesa e che in attacco toccano poco il pallone. Secondo Pelinka, il general manager dei Lakers, «Bronny ha grandi qualità morali ed è un lavoratore instancabile».
Per altri invece in lui non c’è nulla del giocatore Nba e sta semplicemente approfittando del cognome per diventare un professionista. O, almeno, sta seguendo una scorciatoia per arrivarci prima e più facilmente, sfruttando il cognome dietro la maglia.
Si è parlato così tanto di lui, in relazione ai desideri del padre, che alla Combine, l’evento in cui i prospetti che si sono dichiarati al Draft si mettono in mostra davanti agli scout con prove atletiche e tecniche, Bronny era stato costretto a rompere il suo silenzio per dire che «invece di pensare a giocare con papà, cerco solo di lavorare e di vedere dove mi porta quello che faccio». Alla fine però a sceglierlo sono stati effettivamente i Lakers.
Che sarebbe andata così si è iniziato a capire settimane prima del Draft. Nonostante una dozzina di squadre fossero interessate a fare degli allenamenti individuali con Bronny per capirne meglio le potenzialità, il figlio di LeBron si è concesso solo a Phoenix Suns e Los Angeles Lakers. Una scelta del suo agente Rich Paul – che è anche l’agente del padre, nonché uno degli uomini più potenti di tutta l’Nba – giustificata come la necessità di «trovare una squadra che lo valorizzi».
Sempre Paul, hanno raccontato più fonti, ha passato i giorni precedenti al Draft a chiamare tutte le franchigie che non fossero i Lakers avvertendoli che se avessero scelto Bronny, piuttosto che andare a giocare da loro, il suo assistito sarebbe uscito dal contratto per andare in Australia. Ma perché tutta questa riluttanza verso altre squadre?
Il fatto è che, negli stessi giorni del Draft, LeBron James è diventato free agent, cioè libero di firmare un contratto con chi vuole, per quanto vuole. Se qualche franchigia avesse chiamato Bronny prima dei Lakers anche non credendo al suo valore, il padre sarebbe stato costretto o a rinunciare al sogno di giocare insieme al figlio o a lasciare Los Angeles per seguirlo.
Magari LeBron non è più il miglior giocatore della Nba, a quasi 40 anni, ma averlo in squadra (più il figlio) per questi ultimi anni di carriera vuol dire avere tutti i riflettori puntati addosso, con quel che comporta a livello di views, click, sponsor, spettatori e soldi guadagnati. E se c’è un posto dove questo conta ancora di più è proprio Los Angeles, la città dei riflettori.
Ecco il vero motivo perché Bronny è in Nba e perché proprio nei Lakers. Ancora una volta, insomma, LeBron è riuscito a usare la sua influenza fuori dal campo. Non è la prima volta e probabilmente non sarà l’ultima. Poco più di una settimana fa, per dire, i Lakers hanno scelto J.J. Redick come nuovo allenatore. La sua particolarità? Non aver mai fatto l’allenatore, ma avere un podcast con LeBron James. In ogni caso non è il primo, né sarà l’ultimo, uomo di potere che usa la sua influenza per spianare la strada del figlio.
Viene da chiedersi, però, quale fosse la vera volontà di Bronny. Anche lui sognava questo scenario o magari avrebbe preferito provarci senza l’interferenza paterna? Anche rischiando di fallire o subire un pregiudizio al contrario per il nome che porta. Siamo sicuri che Bronny voglia diventare “un collega” del padre?
La vita in una squadra Nba ha dei codici tutti suoi, e condividerli con un genitore può essere imbarazzante. I due viaggeranno insieme, divideranno gli stessi autobus, gli stessi alberghi, lo stesso spogliatoio. I rookie, i giocatori al primo anno, vengono bullizzati e presi in giro dai compagni più grandi, non tanto come forma di nonnismo ma come una sorta di battesimo del gioco. Bronny come sarà trattato da compagni, allenatori, avversari e giornalisti? Subirà un trattamento imparziale?
Difficile crederlo, più facile immaginare che sarà trattato come una specie di mascotte, come quando qualcuno porta il figlio in ufficio e per un po’ ha le attenzioni di tutti e poi si fa finta che non ci sia. Dall’altra parte l’idea di giocare con tuo padre, quando tuo padre è un’icona vivente può essere affascinante. Vincere insieme, conoscerne un lato diverso, imparare da lui.
Bronny lo cita sempre come un modello di vita e come il suo giocatore di riferimento. Dopotutto, un padre è un padre e il sangue è più pesante dell’acqua. LeBron inoltre è cresciuto senza il suo e inevitabilmente ha voluto provare a comportarsi all’opposto, cercando di essere più presente possibile. E, se più crescono più è impossibile essere costantemente nella vita dei figli, se sei LeBron James puoi provare almeno a farlo nella loro vita nel basket.
È una reazione così umana che, accasato Bronny, si sta già parlando della possibilità che LeBron riesca a giocare anche col suo secondogenito Bryce. Diciassette anni, di lui si parla anche meglio di Bronny come potenziale cestistico. Se tutto va come deve andare, Bryce potrebbe sbarcare in Nba nel 2026. A questo punto è lecito pensare a un futuro quintetto dei Lakers fatto per 3/5 da James.
Recentemente gli hanno chiesto proprio questo, se anche lui vorrebbe giocare col padre come Bronny. Bryce ha risposto quasi schifato che «sarebbe troppo vecchio: avrebbe 42 anni». Bryce però non sa che l’affetto paterno può fare miracoli, può piegare il tempo che passa e motivare. Soprattutto se ti chiami LeBron James e sei un dio del basket.