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Jerry Buss, l’uomo che creò lo Showtime

Il 18 febbraio di 10 anni fa moriva uno dei più grandi e celebri dirigenti della storia sportiva americana, classico esempio di self made man

18 febbraio 2023
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«Per la mia carriera, Jerry Buss ha significato tutto», disse Kobe Bryant quando seppe della morte dell’iconico dirigente, il 18 febbraio 2013. «Mi ha scelto direttamente dalla high school a 17 anni e ha sempre creduto in me. Ha contribuito ad aumentare l’importanza di questo sport con lo Showtime. La rivalità tra Boston e Lakers ha raggiunto anche me, quando ero in Italia a 6 anni. Si è dedicato alla squadra, portandola dove dovrebbe essere, e la sua eredità è incommensurabile».

Una riconoscenza testimoniata pure da Shaquille O’Neal, che definì l’ottantenne imprenditore… «Un grande amico, un mentore, un uomo dall’incredibile fiuto per gli affari».

Assai significative furono anche le parole spese da David Stern, storico Commissioner della Nba, il più importante campionato di basket al mondo: «Abbiamo perso un proprietario visionario la cui influenza su questa lega è incalcolabile e durerà per decenni. Buss era un precursore, un vero pioniere e ha contribuito a impostare il campionato sulla rotta in cui si trova oggi. Ci ha mostrato che si trattava di Showtime e che le arene potessero diventare il punto focale non solo per il basket, ma anche per l’intrattenimento. Ne ha fatto il posto per vedere ed essere visti».

E fu proprio insieme al Commissioner Stern, alla fine degli anni 70, che Jerry Buss – appena acquistati i Los Angeles Lakers – contribuì a salvare la Nba, entità che in quegli anni, malgrado la recente fusione con la Aba, rischiava il fallimento: palazzetti semideserti, poche città interessate, copertura televisiva quasi nulla, stipendi da fame (tranne per una dozzina di fuoriclasse) e immagine offuscata dai frequentissimi casi di atleti dediti a ogni tipo di droga.

La gavetta

Gerald Hatten Buss, per tutti Jerry, viene al mondo in un periodo non felicissimo, cioè negli anni della Grande depressione seguita alla crisi economica del 1929. Oltretutto, non nasce certo in una metropoli, ma a Salt Lake City, la città dei mormoni sorta al crocevia delle piste per l’Ovest che, per certi versi, nel 1933 andava ancora considerata come territorio di frontiera.

Al contrario di molti americani di successo, non è che nasca troppo povero – a suo padre succede infatti di insegnare pure a Berkeley – ma i genitori divorziano prestissimo e il bambino si trasferisce con la madre e il suo nuovo marito a Los Angeles, forse un segno del destino. Ma in California ci restano solo un paio d’anni: levano infatti le tende per far ritorno a una terra ancor più marginale dello Utah natio.

È a Kemmerer, Wyoming – neanche duemila anime ai piedi delle Montagne Rocciose – che approda il dodicenne Jerry Buss. Sarà nella ditta di lavori idraulici del patrigno che il ragazzino farà la gavetta: levatacce, mani ghiacciate e spalle irrobustite dalle picconate con cui tira su i suoi primi soldi, all’alba, prima di andare a scuola. Un po’ più grande, negli anni della high school, guadagna due dollari a sera come fattorino in un motel e, preso il diploma, viene assunto da una ferrovia locale, dove resta due anni e mette insieme i soldi necessari per frequentare l’università. Intanto, nemmeno ventenne, sposa la ragazza che gli darà i suoi primi quattro figli.

Laureatosi poi in chimica alla University of Wyoming, torna sulla costa pacifica per un master alla University of Southern California ed entra nell’Agenzia governativa delle miniere, che abbandona quando capisce che nell’industria aerospaziale si guadagna meglio. Il nuovo impiego, infatti, gli consente di risparmiare qualcosina e insieme al collega Frank Mariani, che sarà suo braccio destro per tutta la vita, nel 1959 – con soli 6mila dollari di garanzia – riesce a strappare a una banca un prestito di 100mila verdoni per acquistare un vecchio palazzone nel centro di Los Angeles. I due soci sono così spiantati che, per contenere le spese, lo ristrutturano con le loro mani.

Il business ad ogni modo funziona e Jerry, che ha già sviluppato il vizio del gioco, punta centocinquanta dollari su un cavallo che, stando agli esperti, non avrebbe vinto una corsa nemmeno correndo da solo. Invece, ovviamente, taglia il traguardo per primo e regala a Buss i 12mila dollari con cui comprerà alcuni terreni non lontano da Hollywood. Sono gli albori di un’avventura nel campo immobiliare che, 18 anni dopo, avranno trasformato quei 6mila dollari iniziali in un impero da 350 milioni.

L’intero pacchetto

Arricchitosi col mattone, Jerry negli anni 70 comincia a differenziare i suoi investimenti ed entra nel mondo dello sport acquistando squadre di tennis, calcio, volley e organizzando riunioni pugilistiche di livello sempre più alto.

Un giorno che i suoi tennisti vanno a giocare al Forum di Inglewood, beve una birra col proprietario della struttura e viene a sapere che l’arena è in vendita. Se l’articolo interessa, basta cacciare 67 milioni per un pacchetto comprendente, oltre al palazzo dello sport, un ranch con 12mila acri di pascolo sulla Sierra Nevada e un paio di famose franchigie cittadine: i Kings di hockey e i Lakers di basket. Chiede un’altra Bud e un po’ di tempo per pensarci su, anche se in realtà ha già deciso, e infatti i due si stringono la mano prima ancora di svuotare la seconda lattina.

Il problema è che Jerry, per chiudere l’affare, è costretto a spendere tutto ciò che ha, e forse anche più di quanto realmente possegga: le trattative dureranno oltre due anni. E così, per rientrare del faraonico investimento, si lancia in un progetto utopico se non addirittura suicidale: arricchirsi con la pallacanestro, sport la cui massima lega – come detto – in quegli anni è vicinissima alla bancarotta.

Oltretutto, ha comprato i Lakers, squadra che fin lì si portava addosso come una malattia le stimmate del loser: aveva infatti perso un numero imbarazzante di finali e il suo ultimo titolo risaliva ormai a una decina d’anni prima.

Eppure, fra l’incredulità generale, riesce a creare e a vendere un prodotto di successo: porta al Forum show che fanno da contorno allo spettacolo stesso e ne diventano, in poco tempo, parte integrante. Affitta l’arena agli organizzatori di grandi concerti ed esibizioni di ogni genere, sveste le cheerleader quanto nessuno aveva mai osato, introduce le orchestre per la musica dal vivo durante le partite, toglie alla stampa le poltrone delle prime file e le offre agli attori più glamour di Hollywood, alle star della tv, della scena artistica e del rock.

Scommessa vinta

L’obiettivo era attirare più gente possibile al Forum e di fare dei Lakers un fenomeno nazionale, un’icona pop, qualcosa cioè per cui le televisioni – e dunque la pubblicità – avrebbero sganciato un sacco di soldi. Il miracolo, lo sappiamo, si avverò. Vincent Bonsignore, celebre giornalista sportivo, così descrisse l’atmosfera che si respirava alle partite dei Lakers nei primi anni 80: «Era un misto fra Notte degli Oscar e Grammy Award, con un pizzico di Playboy Mansion e Studio 54».

Coraggio e abilità sono ovviamente alla base del successo di Jerry – tabagista ortodosso e incallito giocatore di poker – ma qualche merito va riconosciuto pure alla fortuna. Senza Magic Johnson, infatti, la rivoluzione scatenata nel basket americano da Buss non sarebbe mai scoppiata: biglietti omaggio e minigonne inguinali non bastano da soli, se poi in campo di meraviglie non se ne vedono.

E così, al draft del 1979, Jerry si assicura i servigi di Earving Magic Johnson, Messia della palla a spicchi che ha appena vinto il titolo universitario contro Larry Bird, l’altro profeta del gioco, che firma invece per i Boston Celtics, franchigia in cerca come i Lakers di una rinascita dopo un decennio di vacche scheletriche. E sarà proprio sulla spettacolare e acerrima rivalità fra la Boston wasp e la cosmopolita Los Angeles che porrà le basi il Rinascimento del basket Nba, che troverà linfa vitale nell’opposizione fra il bianco Larry e il nero Magic, così come fra la costa Ovest e la costa Est, fra l’eleganza del Massachusetts e la frivolezza della California meridionale.

Con Magic in campo insieme a una stella assoluta come Kareem Abdul-Jabbar e a un comprimario di prim’ordine come James Worthy – e soprattutto con l’emergente coach Pat Riley in panchina – i Lakers di Jerry Buss vinsero 5 titoli Nba in 8 anni, affermandosi come una delle squadre più leggendarie della storia sportiva statunitense.

A interrompere momentaneamente il sogno, all’inizio del decennio successivo, oltre a un fisiologico ricambio generazionale contribuì la scioccante notizia della sieropositività di Magic, che colpì nel profondo Jerry Buss: il giocatore, per lui, era ormai come un figlio.

Superato per fortuna quel tragico momento nel migliore dei modi, il padrone dei Lakers ritrovò l’entusiasmo e l’energia necessari a riaprire un secondo e un terzo ciclo vincente, assicurandosi i contratti dapprima di Shaquille O’Neal e poi di Kobe Bryant, le star planetarie a cui abbiamo fatto aprire questa pagina, grazie alle quali porterà a 10 il numero di anelli Nba messi in bacheca nei 34 anni della sua presidenza.

Gente comune

Classico esempio di miliardario americano che si è fatto da solo, Jerry Buss – donnaiolo impenitente fino alla fine dei suoi giorni – ha fatto della sua squadra di basket un colosso in grado di fatturare come e più di una multinazionale e l’ha infine consegnata ai numerosissimi figli, piazzati nei ruoli strategici del club.

Fedele al ragazzino che era stato – quello che scavava cantieri di notte al freddo – prima che il cancro se lo portasse via, Buss si univa per un poker alla gente comune ai tavoli più popolari dei casinò, e quando andava a vedere le partite della squadra della sua ex università (Usc) pagava regolarmente il biglietto e faceva la fila, insieme a studenti e operai, per farsi una birra durante l’intervallo. Col suo ciuffo, i suoi baffoni, i jeans sempre troppo consumati, i suoi leggendari occhialoni scuri, i calzini bianchi e la camicia sbottonata e fuori moda.