Il successo dei Galletti nel Mondiale del 1998, cavalcato o misconosciuto a seconda delle fazioni, si portò appresso diverse implicazioni politiche
Nel corso dei due anni che precedettero la Coppa del mondo di calcio disputata in Francia nel 1998, il fascista Jean-Marie Le Pen – fondatore del Front National e deputato al Parlamento europeo – non faceva altro che ripetere quanto fosse vergognoso che la Nazionale transalpina schierasse giocatori di sangue non francese. «Non vedo perché si debba andare in capo al mondo a reclutare gente che nemmeno conosce le parole della Marsigliese», ribadiva davanti alla stampa facendo leva sui temi più cari ai suoi elettori. In realtà, quei ragazzi dai cognomi poco gallici non bisognava andare a cercarli chissà dove, visto che nella maggior parte dei casi vivevano nell’Hexagone da due o tre generazioni, dove le loro famiglie erano giunte come conseguenza di colonialismo e immigrazione. Con quelle sue sparate, Le Pen dimostrava di sapere poco di sport, oltre che di storia. Ad esempio ignorava – o gli tornava comodo farlo – che convocare figli di stranieri non era affatto una tendenza degli ultimi anni, ma un’abitudine che i francesi coltivavano – senza peraltro darle troppa importanza – fin da quando Berta filava. Fra i Bleus che presero parte ai Mondiali negli anni 30, ad esempio, figuravano numerosi elementi non proprio "pure laine", per usare un’espressione che potrebbe piacere a Marine, che dal padre ha ereditato cadreghini e idee: Gonzales, Alcazar, Ben Bouali e Zatelli erano infatti nati in Algeria, Da Rui era lussemburghese, August Jordan era di Linz, Courtois ginevrino, Povolny e Kowalczyk polacchi, mentre di Di Lorto si ignorano le origini precise, ma certo non portava un cognome tipo Dupont o Laffite. Forse, dirà qualcuno, Le Pen a quei tempi era troppo giovane per ricordare. Obiezione in parte accolta, e allora andiamo a vedere i "nom de famille" dei nazionali francesi degli anni 50, epoca di cui il novantaquattrenne Jean-Marie avrà senz’altro memoria ancora oggi, Alzheimer permettendo: Ruminski, Gianessi, Bieganski, Abderrahmane Mahjoub, Ben Tifour, Glovacki, Colonna, Chiarelli, Hnatov, Piantoni, Wisnieski e naturalmente il divino Raymond Kopa, che all’anagrafe faceva Kopaszewski. Per non parlare della generazione dorata degli anni 80: Baratelli, Amoros, Battiston, Janvion, Lopez, Tresor, Genghini, Platini, Larios, Tigana, Bellone, Soler, Castaneda, Ettori, Fernandez, Stopyra e Xuereb, gruppo irripetibile guidato fra l’altro in panchina da un altro figlio di immigrati, cioè Michel Hidalgo.
Avessimo un franco, lo scommetteremmo sul fatto che il 12 luglio del ’98 sia stato il giorno peggiore della lunga vita di Le Pen, dato il trionfo iridato della Francia multicolore – black blanc beur – nella finale parigina contro il Brasile. Innanzitutto perché, prima del fischio d’inizio, i giocatori l’inno patrio lo cantarono, eccome. E poi perché quel successo fu furbescamente cavalcato dai suoi avversari politici, che si affrettarono a dire che quella Nazionale era il simbolo evidente della riuscita integrazione delle minoranze, come se l’esempio di ventidue privilegiati milionari potesse davvero rappresentare le reali dinamiche del Paese, e far dimenticare per incanto il communautarisme e le rivolte delle banlieue. Lama, Candela, Lizarazu, Vieira, Djorkaeff, Desailly, Zidane, Pires, Henry, Diomede, Boghossian, Thuram, Karembeu e Trezeguet: ecco i nomi degli chef che, nell’ultimo Mondiale del Novecento, servirono a Le Pen vassoiate del suo stesso fegato.
Non fosse stato così nazionalista, e razzista, Le Pen avrebbe invidiato da morire i croati, rappresentanti di un Paese piccolo, giovanissimo e figlio di una tragica frammentazione – quella jugoslava – che si era basata proprio su criteri di tipo etnico. Schierando soltanto giocatori di provate origini croate, benché quattro o cinque fossero venuti al mondo altrove, il selezionatore Miroslav Blazevic – lui pure dai natali bosniaci – aveva condotto la squadra, alla sua prima Coppa del mondo dopo l’indipendenza, addirittura alla medaglia di bronzo. In semifinale la Croazia, pur passata in vantaggio, venne poi sconfitta proprio dal melting pot francese grazie a una doppietta di Thuram, l’uomo della Guadalupa che quella sera segnò i suoi unici gol con la maglia dei Bleus in quasi 150 partite. Si trattava, fin lì, delle due reti più importanti della storia della nazionale francese: primato che sarà battuto pochi giorni più tardi, quando un’altra doppietta – quella del nordafricano Zidane, marsigliese della Cabilia – regalava ai Galletti la loro prima Coppa del mondo.
Durante tutto il torneo, l’allenatore croato Blazevic, detto Ciro, appena finivano le partite giocate dai suoi ragazzi si metteva sulla testa un képi da gendarme francese. Gliel’aveva regalato il responsabile della sicurezza a Vittel, dove la Nazionale balcanica aveva stabilito il proprio campo base. E gli chiese di farsi fotografare con quel copricapo: all’inizio dei Mondiali, a Lens, dopo Germania-Jugoslavia, il maresciallo della polizia Daniel Nivel, 43 anni e due figli, era stato quasi ucciso – picchiato selvaggiamente – da un branco di hooligan originari dell’ex Germania Est aiutati da ultrà fascisti del Paris Saint-Germain. Mostrando al mondo il vecchio Ciro indossare il képi, i flic speravano di sensibilizzare la gente a donare dei soldi per Nivel, sua moglie e i suoi bambini. Blazevic non solo accettò di posare, ma da quel cappellino non si separerà più: raccontò infatti che si trovava ancora sul suo comodino il 13 agosto, quando lo sfortunato gendarme uscì dal coma dopo sei settimane, cieco da un occhio, costretto a reimparare a camminare e impossibilitato per l’eternità ad articolare alcun suono.
Il mancato assassinio del maresciallo non fu il solo episodio vergognoso della kermesse francese: giocatori e tifosi della Giamaica furono vittime di beceri episodi di razzismo per via della loro pelle nera, retaggio del plurisecolare commercio di esseri umani fra le due sponde dell’Atlantico. Lo stesso che aveva trasferito alle Antille, in catene, gli antenati del già citato Lilian Thuram e di un buon numero di giocatori brasiliani sconfitti nella finalissima dello Stade de France, oltre i due terzi, e fra loro c’era naturalmente Ronaldo il Fenomeno, che quella partita non avrebbe nemmeno dovuto giocarla. La mattina, infatti, in albergo ebbe un grave malore. Roberto Carlos, suo compagno di stanza, diede l’allarme e il ragazzo venne immediatamente ricoverato in ospedale, dove i medici – credendolo preda di una crisi epilettica – lo stabilizzarono sentenziando che in nessun caso avrebbe potuto scendere in campo la sera stessa. In seguito si venne a sapere che la diagnosi fu errata: si trattava in realtà di un problema cardiaco e i farmaci somministratigli avevano rischiato di ucciderlo. Sbagliare, si sa, è umano. Diabolico è invece quanto fecero, pare ormai assodato, i pezzi grossi della Nike, che sponsorizzava personalmente Ronaldo e pure tutta la Nazionale brasiliana. Obbligarono infatti lo staff tecnico sudamericano a schierare il giocatore benché stesse malissimo, cosa di cui si accorsero anche i ciechi. Una finale in diretta televisiva con due miliardi di potenziali clienti era qualcosa a cui la multinazionale dell’Oregon non avrebbe mai rinunciato, poco importa se in ballo c’era la pelle di qualcuno. Pare che iene e grandi squali bianchi abbiano più coscienza e si facciano maggiori scrupoli, quando mossi dalla frenesia alimentare si gettano sulle prede per farle a brandelli.
Questa è la sedicesima puntata di una serie dedicata alla storia della Coppa del mondo di calcio che ci accompagnerà fino a novembre, nell’immediata vigilia di Qatar 2022.