Cade domani l’anniversario della demolizione del centro sociale. Tra ruspe, glitter e scontri, l’ironico ricordo dell’evento che ha segnato la città
È stata la giornata più lunga dell’anno. Lasciamo perdere per un attimo i tanti interrogativi in parte ancora tali, le forti tensioni, l’incredulità per ciò che stava accadendo, le implicazioni politiche, le inchieste penali e le pretese civili. A un anno da quei 29 e 30 maggio, il più vivido ricordo della demolizione del Centro sociale occupato autogestito (Csoa) Il Molino di Lugano è la durata: una giornata partita con buone premesse appesantita da un’interminabile notte terminata al rovescio. Per circa quindici ore un susseguirsi continuo di eventi fino alle 4.30 circa del mattino, quando gli ultimi irriducibili fra i manifestanti si sono allontanati, dopo essere stati registrati dalla polizia. Ripercorriamo quella notte, tra ricordi e curiosità. E, perdonateci, un filo d’ironia.
«Sono arrivate le ruspe». E giù la mandibola. No, la demolizione – ‘solo tetto’, ‘okay tutto’, ‘hanno sbagliato’, ‘però son loro’, ‘no loro’, ‘no nessuno’, evviva – non ce l’aspettavamo. Col senno di poi di ‘mea culpa’ ne abbiam recitati tanti in redazione perché di segnali in realtà ce ne sono stati sia quel giorno, sia i giorni e le settimane precedenti. Di fatto verso l’una di notte è cominciata a circolare la voce che all’ex Macello fossero in azione le ruspe e gli idranti. Mai stato un atleta: la corsa dall’ex istituto Vanoni alla sede del centro sociale mi costa fatica ancora oggi. Ma è servita. Mentre in via Simen si stava stancamente chiudendo l’occupazione – "provvisoria e dimostrativa", apprenderemo poi –, valorizzata va detto dalla fulminea segnalazione alla Polizia cantonale, il pezzo forte dello spettacolo sarebbe effettivamente andato in scena in viale Cassarate. E a dispetto del mancato battage pubblicitario, non ce lo siamo fortunatamente persi.
La stampa ha sempre un biglietto in prima fila per i grandi spettacoli. Per recensirli, ma anche per raccogliere gli umori del pubblico. E non ce ne vogliano gli organizzatori, ma basandosi su quest’ultimi altro non si poteva fare che stroncare. Le prime nelle quali mi sono imbattuto davanti alla demolizione sono state delle attonite adolescenti in lacrime. Al Molino andavano persone di diverse età e un po’ da tutto il cantone, con preponderanza di giovani. Ma sono loro a essermi rimaste impresse: esili ma determinate farfalle dai vestiti colorati, con i brillantini sulle guance e il volto rigato da lacrime e mascara. Ragazze giovani, giovanissime, a prima vista più da Street Parade di Zurigo che un pericolo per l’ordine pubblico. Stonavano accanto alle macerie, ai poliziotti in tenuta anti-sommossa total black, ai manifestanti più incazzati. Con incredulità e dolcezza si rivolgevano agli agenti e la domanda era sempre una: «Perché?».
Di dolce ricordo poco altro. Non che allo stadio o durante la ricreazione in una scuola media il linguaggio sia particolarmente più aulico, purtroppo. Ma le parole sono lame e colpiscono. Possiamo comprenderle: c’era la rabbia, c’era lo shock, c’era la delusione, c’era l’amarezza, c’era l’adrenalina, c’era la stanchezza, c’era la ribellione. Ma non possiamo giustificarle. I poliziotti sono il braccio operativo di chi le decisioni le prende. O dovrebbero esserlo, visto che per un certo periodo non è stato ben chiaro da chi sia arrivato questo benedetto ‘via libera’. Dietro quelle armature ultraattrezzate ci sono delle persone, c’è un orgoglio. Sono uomini e donne, talvolta poco più che ragazzi, sempre più spesso di origine straniera e raramente di elevata estrazione sociale. Quanti di loro sono psicologicamente pronti a sentirsi dare del "figlio di..." perché stanno facendo il proprio lavoro? Domande che mi sono posto quella notte e che mi pongo tutt’oggi. Ma ancor più brutti da sentire – sebbene il francese sia una lingua romantica – sono stati gli insulti provenienti da chi una divisa e una corazza le indossava. La prepotenza di alcuni poliziotti romandi ce la saremmo risparmiata volentieri.
Verba volant, rudera manent, sembra dicessero però i latini. Non solo domande ci ha lasciato in eredità la più lunga notte dell’anno. Il fuoco della protesta ha marchiato la ringhiera del ponte sul Cassarate vicino all’ex Macello. Tutt’oggi giace ammaccato a ricordarci la rabbia degli autonomi quella sera. Indelebile, come i ricordi di un carrello della spesa gettato nel fiume o di un sedicente giornalista turco che passava di lì per caso spaesato dalle scene da guerriglia urbana nella placida Lugano. Indelebile, come il gruppetto di presunti simpatizzanti di estrema destra – fra i quali un consigliere comunale, si mormora – pronti ad applaudire a ogni colpo di ruspa. Indelebile, come gli scontri ai quali non avremmo voluto assistere.
E indelebili sono, ancora, le macerie della demolizione. Ci facciamo un po’ più seri, perché almeno tre sono le inchieste tutte ancora pendenti riconducibili alla notte della demolizione e agli sviluppi successivi. La più significativa è quella riconducibile alla denuncia dei Verdi, perché coinvolge le autorità politiche e di polizia. In seguito all’esposto è stata aperta un’indagine per abuso di autorità, violazione (intenzionale, subordinatamente colposa) delle regole dell’arte edilizia, infrazione alla Legge federale sulla protezione dell’ambiente e danneggiamento. Partita contro ignoti, l’inchiesta ha visto poi come imputati la capodicastero Sicurezza Karin Valenzano Rossi e il vicecomandante della Polizia cantonale Lorenzo Hutter. Pur criticando il pasticcio comunicativo e riconoscendo alcuni reati ma non le colpe in virtù dello stato di necessità, il procuratore generale Andrea Pagani ha stabilito un decreto d’abbandono. Questo è stato tuttavia impugnato dall’avvocato Costantino Castelli a nome dell’Associazione Alba e il dossier si trova ora alla Corte dei reclami penali. Sempre pendente è poi lo status giuridico di alcuni dei manifestanti coinvolti nei fatti del 29 e del 30: una quarantina sono stati denunciati per violazione di domicilio per l’occupazione dell’ex Vanoni e alcuni altri in seguito ai disordini post demolizione, fra danneggiamenti, lanci di sassi e bottiglie. Infine, poco prima di Capodanno un’altra manifestazione finita con una rioccupazione dell’ex Macello è sfociata in altri disordini. Fatti in seguito ai quali una decina di persone sono state fermate e denunciate per violazione di domicilio, mentre più grave è la posizione di due 30enni, arrestati (e poi rilasciati) per violenza o minaccia contro funzionari. Ma anche una manifestante ha sporto denuncia nei confronti di (allora) non identificati agenti, essendosi fatta male cadendo a causa di uno spintone che valuta come volontario da parte di un poliziotto.
E mentre lo Csoa continua ormai da più di un anno a radunarsi regolarmente per attività di vario genere e per le proprie assemblee, siamo in una fase nella quale lo scontro pare passato dalle piazze ai tribunali. Ancora presto dunque per un dialogo?