A Monte Carasso la mostra con il meglio del fotogiornalismo mondiale. Quest’anno con nuove modalità di selezione
C’è ovviamente anche lei, la "foto dell’anno" annunciata un mese fa: realizzata dalla canadese Amber Bracken, l’immagine mostra una serie di abiti appesi a delle croci lungo una strada in Canada. Siamo nella British Columbia, a Kamloops dove sorgeva una delle tante istituzioni con cui, per buona parte del Novecento, si è cercato di "introdurre" alla cultura occidentale le popolazioni indigene, allontanando i bambini dalle loro case e dai loro genitori, costringendoli a non parlare la propria lingua. Nella Kamloops Indian Residential School si stima siano morti almeno 215 bambini, e 215 sono le croci che troviamo lungo la strada in quell’immagine che mostra la forza della fotografia come strumento di informazione e sensibilizzazione.
Ma alla World Press Photo Exhibition troviamo anche altre immagini selezionate per il prestigioso concorso di fotogiornalismo e abbiamo così occasione – al di là dei "15 minuti di celebrità" che riceve la foto dell’anno al momento della premiazione – di scoprire altri luoghi e altri eventi, di vedere come uno stesso tema si declina in varie parti del mondo, scoprendo ad esempio – con il fotoreporter australiano Matthew Abbott – come le tradizioni delle popolazioni indigene possano aiutare nel contrasto alle conseguenze del cambiamento climatico.
L’occasione ci è data, come da alcuni anni, dallo SpazioReale di Monte Carasso che accoglie la World Press Photo Exhibition, fino al 30 maggio nei sotterranei dell’Antico convento delle agostiniane. Un viaggio intorno al mondo, si è accennato, e questo è ancora più vero da quest’anno come in conferenza stampa ha spiegato Martha Echevarria Gonzalez, curatrice ed exhibitions manager della World Press Photo.
Foundation, l’ente che dagli anni Cinquanta premia i migliori fotografi professionisti della stampa. Negli ultimi anni era emerso un problema di rappresentatività e di diversità. «Abbiamo avuto numerosi vincitori dall’America del Nord, dall’Europa e dall’Australia» ci ha spiegato Echevarria Gonzalez «e pochi dalle altre regioni, da quello che dovremmo chiamare "il mondo maggioritario" perché è lì che vivono la maggior parte delle persone». E soprattutto «è lì che ci sono molte storie che non riuscivamo a raggiungere».
Da qui la piccola "rivoluzione": al posto delle consuete categorie come Attualità, Sport o Ritratti, sei aree geografiche ognuna con una giuria e con una propria selezione di progetti. Si parla di Africa, Europa (incluso tutto il territorio russo), Asia, America del Nord e Centrale, Sudamerica, Sudest Asiatico e Oceania. L’aspetto geografico viene preso in considerazione per quello che mostrano e raccontano le fotografie, non per il Paese d’origine dei fotografi: il sistema, in altre parole, assicura la diversità delle storie, non necessariamente degli sguardi con il rischio che quel "mondo maggioritario" sia comunque raccontato con gli occhi del "mondo minoritario", ma qui interviene il lavoro delle giurie il cui lavoro appare attento al problema. Il tema della diversità non si limita infatti alla struttura regionale ma riguarda anche chi valuta le fotografie: nelle giurie troviamo non solo persone provenienti dalle varie regioni del mondo, ma anche con diverse formazioni, da giornalisti a curatori a documentaristi. Una varietà indispensabile, ci ha sempre precisato Echevarria Gonzalez, per via di un altro cambiamento nella struttura del concorso: le varie fotografie presentate sono infatti divise in base al tipo di progetto e se le foto singole, le storie e i progetti a lungo termine (con anche una trentina di immagini realizzate nel corso di più anni) riprendono forme già presenti al World Press Photo, l’Open format rappresenta una novità e soprattutto un parziale superamento di quello che è stato uno dei capisaldi del concorso fin dalle origini: l’assenza di manipolazioni, andando anche a controllare che pratiche normali nell’ambito della fotografia (come ritagliare la foto o regolarne la saturazione) non alterino significativamente l’immagine. L’Open format si apre a interventi più incisivi, come le esposizioni multiple e l’inserimento di elemento non fotografici. Ma, ha precisato Echevarria Gonzalez, mantenendo sempre al centro un’immagine fotografica il più possibile autentica. È il caso ad esempio del progetto ‘The Will to Remember’ della tailandese Charinthorn Rachurutchata che ha usato la tecnica giapponese del kintsugi per "riparare con l’oro" alcune fotografie di proteste a Bangkok negli anni Settanta e di oggi o ancora di ‘The Flower of Time’ del messicano Yael Martínez che ha dato consistenza visiva alla sofferenza delle popolazioni indigene danneggiando con buchi e graffi le fotografie.
Come si vede, quello delle popolazioni indigene è uno dei temi che ritroviamo in più regioni e che la giuria generale ha, un po’ a sorpresa, trovato in vari lavori. Un altro aspetto che è emerso da più fotografi è la lotta per i diritti civili – e che si ricollega alla libertà di stampa, tema da sempre caro alla World Press Photo Foundation contraria a ogni forma di censura – e che, insieme ai cambiamenti climatici, rappresenta un po’ il fil rouge dell’esposizione. «L’allestimento dipende dagli spazi a disposizione, ma cerco sempre di associare temi simili» ha spiegato sempre Echevarria Gonzalez «anche se in questo tipo di mostre è secondo me sempre importante avere "alti e bassi", alternando storie difficili ad altre più leggere».
L’esposizione, come detto, si chiuderà il 30 maggio e il finissage vedrà il tradizionale appuntamento con il cinema sul mondo in collaborazione con il progetto Open Doors del Locarno film festival. Lunedì 30 alle 18 sarà proiettato ‘Nuestras Madres’ del regista guatemalteco naturalizzato belga César Díaz, film vincitore del premio Caméra d’Or a Cannes nel 2019.