Scatti che raccontano la complessità del mondo: in mostra fino al 22 settembre le 140 fotografie finaliste del prestigioso concorso di fotogiornalismo
Sono dodici anni che SpazioReale ospita le esposizioni del World Press Photo: una piccola parte della storia di questo concorso – è dagli anni Cinquanta che l’omonima fondazione di Amsterdam seleziona il meglio del fotogiornalismo mondiale – per non dire della ancora più ampia storia della fotografia. Tuttavia questo decennio abbondante è sufficiente per notare un cambiamento, nel World Press Photo e più in generale nel nostro rapporto con le immagini e le realtà che queste immagini dovrebbero mostrare.
Entrando nei sotterranei dell’Antico convento delle Agostiniane a Monte Carasso, dove la World Press Photo Exhibition 2024 sarà visitabile fino al 22 settembre, incontriamo fotografie più “pulite” e “artistiche” di quelle che si potevano vedere nelle prime edizioni ticinesi della mostra: certo, come ha spiegato durante l’incontro con la stampa Raphael Dias e Silva della World Press Photo Foundation, rimangono le ferree regole sul fotoritocco e le messe in scena – e per questo vengono richieste, oltre alla singola foto, anche quelle realizzate subito prima e subito dopo, per essere sicuri dell’autenticità della situazione fotografata –, ma evidentemente la mutata sensibilità, unita a strumenti sempre più sofisticati, e il dare maggior spazio a “Storie e Progetti” a lungo termine, senza dimenticare la nuova categoria “Open Format” introdotta un paio di anni fa, ha portato a immagini più ricercate, in grado non solo di illustrare la notizia di un singolo fatto di cronaca, ma di sostenere una narrazione più articolata e profonda di quello che accade intorno a noi.
Così, il primo gruppo di foto che incontriamo a Spazio Reale, realizzato dal venezuelano Alejandro Cegarra, racconta in nove scatti la trasformazione del Messico, passato in pochi anni da Paese che accoglieva migranti e rifugiati a Paese con rigide politiche sull’immigrazione. Cegarra, che è stato uno di questi migranti arrivando in Messico dal Venezuela nel 2017, mostra le difficoltà che affrontano queste persone tra ‘I due muri’, come da titolo del suo progetto a lungo termine iniziato nel 2018.
In alcuni casi alla storia raccontata nella foto si aggiunge la storia stessa della foto. È il caso della “foto dell’anno” – che troviamo al centro della seconda sala, incorniciata dalle scale che vi portano dalla sala principale –, realizzata dal palestinese Mohammed Salem: una donna di Gaza che stringe il corpo di sua nipote in una posa che può ricordare la pietà di Michelangelo e con i volti coperti. A fianco della descrizione della foto e della guerra tra Israele e Hamas, World Press Photo ha voluto aggiungere un riquadro sulle difficoltà che i giornalisti devono affrontare per fare il loro lavoro.
È interessante confrontare la foto di Mohammed Salem con quella, altrettanto forte – e premiata come miglior foto singola dell’area geografica europea – del turco Adem Altan: un padre che tiene la mano della figlia quindicenne morta mentre dormiva dalla nonna durante il terremoto che nel febbraio del 2023 colpì Siria e Turchia. Qui vediamo il volto dell’uomo, leggiamo nel suo volto la determinazione di chi non vuole abbandonare la figlia. Il confronto, purtroppo, non è immediato: l’allestimento dell’esposizione segue infatti le sei regioni geografiche (Africa, Asia, Europa, Nord e centro America, Sudamerica, Sudest asiatico e Oceania) in cui da alcuni anni è suddiviso il concorso per garantire una maggiore rappresentanza di tutte le aree del mondo, col risultato però di non mettere in evidenza temi e stili comuni, disorientando inizialmente chi visita la mostra e rischia di perdersi tra immagini così diverse.
Tra i progetti a lungo termine che troviamo a Spazio Reale, c’è quello del franco-tedesco Daniel Chatard sulle miniere a cielo aperto di carbone in Germania, con la cancellazione di villaggi e comunità e la perdita di terreno fertile per far fronte a una politica energetica fallimentare che qui vediamo nella sua concretezza. Da segnalare anche l’interessante lavoro della fotogiornalista ucraina Julia Kochetova, vincitrice nella categoria “Open Format”: una presentazione multidisciplinare che unisce le immagini fotografiche alla poesia e a contenuti audio per raccontare, da una prospettiva personale e intima, cosa è la guerra. La giuria del World Press Photo ha giudicato questo lavoro uno dei più creativi della categoria.
Abbiamo poi il progetto, vincitore nella categoria “Storie”, della fotografa sudafricana Lee-Ann Olwage: ‘Valim-babena’ ben sintetizza l’idea di una fotografia in grado di raccontare fenomeni sociali complessi e delicati. Al centro dell’obiettivo ci sono Paul Rakotozandriny, 91 anni, e la sua nipotina. Paul convive con la demenza senile da oltre dieci anni. Ma che si tratta di demenza senile lo sappiamo noi adesso, perché per diverso tempo nessuno pensava a una malattia: per i suoi dieci figli Paul era semplicemente impazzito, anche a causa del troppo alcol. Nelle immagini di Paul e di sua nipote vediamo le conseguenze dell’aumento dell’aspettativa di vita, con un forte aumento dei casi di demenza a livello mondiale che riguarda sempre più anche i Paesi a basso e medio reddito – questo lavoro di Lee-Ann Olwage è stato realizzato in Madagascar –, dove spesso i problemi cognitivi vengono stigmatizzati o letti come casi di stregoneria.