Hitler ebreo, Zelensky nazista: l’universo parallelo di Sergej Lavrov, un caso esemplare di come il passato può essere manipolato
Adolf Hitler era veramente di origine ebraica? Fingiamo per un attimo di ritenere pertinente la domanda, anche soltanto per il fatto che ciclicamente si ripropone e, quel che è peggio, finisce sempre per essere strumentalizzata (buon ultimo, dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, domenica scorsa su Rete 4). I dati certi sono pochi ma sarebbero più che sufficienti, in realtà, per ascrivere la questione alle leggende metropolitane: Hitler non seppe mai chi era il suo nonno paterno, cioè il padre di suo padre Alois. La nonna paterna, Maria Schicklgruber, ebbe infatti un rapporto prematrimoniale con un uomo mai identificato, verosimilmente nella Graz del 1850.
L’anello mancante nella catena genealogica del Führer, che tutti immagineremmo della più pura razza ariana, ha favorito dicerie e indagini pseudostoriche a partire almeno dagli anni di guerra, ad opera soprattutto dell’avvocato di Hitler, Hans Frank, che aveva ricevuto l’incarico dal diretto interessato. Morto il Führer, nel 1946 Frank ripropose quella strampalata teoria (la nonna sarebbe stata violata dal giovane rampollo di un’importante famiglia ebraica, un non meglio precisato "Leopold" di una altrettanto improbabile dinastia "Frankenberger") e da quel momento si è scatenata una ridda di ipotesi simil-poliziesche non prive, non fosse per l’enorme tragedia che si staglia sullo sfondo, di tratti comici nel loro argomentare singhiozzante: c’è chi ha voluto negare la possibilità di quell’incontro clandestino "perché nella Graz di metà Ottocento non c’era nemmeno un ebreo" (Nikolaus von Preradovich, 1917-2004) e chi invece, con maggiore serietà, ha identificato comunque una piccola comunità ebraica nella città della nonna del Führer (Leonard Sax, nel recente Aus den Gemeinden von Burgenland. Revisiting the question of Adolf Hitler’s paternal grandfather, 2019). La verità è che, a meno di disporre di una macchina del tempo e di riuscire a convincere la signora Schicklgruber a lasciarsi sbirciare – per mero scrupolo di indagine – sotto le lenzuola, la questione è destinata per sempre a restare irrisolta.
Si torna dunque al punto di partenza: che interesse abbiamo a rispondere a una domanda simile, che di per sé nemmeno si giustifica? È chiaro invece l’interesse malizioso di Sergej Lavrov, che nel paragonare il presunto ebraismo di Hitler alla discendenza ebraica (vera) di Volodymyr Zelensky ha trovato buon agio per continuare a promuovere la vulgata del Cremlino sulla denazificazione dell’Ucraina. L’equazione è semplice: se Hitler (presunto ebreo) ha potuto fare quello che ha fatto, perché non Zelensky? Al di là del delirio di un uomo che passava fino a poco tempo fa per uno dei migliori diplomatici del mondo, l’infelice uscita di Lavrov ha riportato in auge il mai del tutto sopito antisemitismo di una parte dell’opinione pubblica russa, che ha attraversato storicamente l’epoca zarista e quella sovietica, con poche varianti nella sostanza. Ne sa qualcosa purtroppo la stessa Ucraina, nella quale la popolazione ebraica è stata ugualmente vessata sia dai nazisti che dai sovietici.
Se siamo onesti però dobbiamo anche ammettere che alle argomentazioni fallaci di Lavrov abbiamo prestato noi stessi, opinionisti occidentali, gli argomenti necessari su un bel vassoio d’argento: dire che l’Ucraina non è nazista perché il suo presidente è un ebreo è un non-argomento. L’Ucraina non è nazista perché è una nazione ben avviata sulla strada della democrazia, perché si riconosce in alcuni valori liberali e perché, nonostante il momento attuale e la presenza di frange estremiste (il famigerato battaglione Azov), non è una società militarizzata basata su ideali razzisti. Questi sono gli argomenti che dovremmo opporre alla propaganda del Cremlino: fatti, non pregiudizi positivi stimolati dalla simpatia per un partito preso. Storici e giornalisti, in questo, hanno pari responsabilità, declinate soltanto in modo diverso.
L’intervista a Sergej Lavrov ha finito infatti per sollevare, ancora una volta, l’annosa questione dell’utilizzo ideologico della storia, uno strumento di cui i totalitarismi hanno sempre fatto uso per mezzo della potentissima arma della selezione: dire anche cose vere, ma non dirle tutte, gettando un occhio di bue su alcuni fatti facilmente strumentalizzabili, e omettendone altri perché meno adatti alla bisogna. In una parola, banalizzare, impedire al discorso storico di svolgere quella che è la sua prima e principale missione: il racconto della complessità. In un’epoca come la nostra, contraddistinta da una memoria sempre più corta e dal ciclico rinascere di movimenti populisti, quelli secondo i quali esistono soluzioni semplici a problemi complessi, l’allerta sull’uso ideologico e banalizzante della storia deve restare massima. Se ci vengono proposte come interpretazioni e come sintesi – due esercizi assolutamente necessari alla comprensione del presente – delle letture faziose e fuorvianti del nostro passato, sta a noi evitare di bere in modo acritico ed indiscriminato tutto quanto ci passa davanti al naso. I rapporti dell’Accademia Serba delle Scienze, con i quali il regime di Milosevic era riuscito a "giustificare" la pulizia etnica del Kosovo, sono sempre dietro l’angolo.
Questo contenuto è stato pubblicato grazie alla collaborazione con la piattaforma d’informazione naufraghi.ch