Parlano i rider del servizio di consegna pasti che retribuisce le corse, ma non il tempo trascorso in attesa di un ordine
Anna e Marco* aspettano seduti uno accanto all’altra, con addosso la loro giacchetta aziendale, ingobbiti sugli smartphone: non per sbirciare i social, ma per controllare turni e ordini del loro lavoro di fattorini. È una app che detta il ritmo di quel lavoro. Secondo alcuni questo permette flessibilità e libertà. «Ma quale libertà? Devo stare attaccata al telefono, portarmelo anche in bagno per non perdere gli ordini, senza neanche sapere se riuscirò a pagare le bollette alla fine del mese. Ti pare libertà?». Lo sfogo viene da Anna, fattorina di Divoora, il servizio di consegna pasti a domicilio che il mese scorso ha destato scandalo col nuovo contratto proposto ai suoi dipendenti: prevede una retribuzione di 35 centesimi di franco al minuto, ma solo per il tempo della corsa fino al ristorante, per ritirare il cibo, e poi fino al cliente. Il tutto rispettando i tempi calcolati dal sistema. Quando la porta del cliente si richiude, il ‘tassametro’ si ferma. Il lavoratore è “libero”, appunto. Ancora di turno, ma senza lavoro retribuito, «spesso ad aspettare il prossimo ordine da qualche parte per strada o in un parcheggio, perché a quel punto ci si può trovare lontani da casa e non c’è indennità per il rientro», ci spiega Marco (si percepiscono 2,20 franchi all’ora per l’uso della propria auto, ma anche in questo caso contano solo i minuti della ‘corsa’).
Il nuovo contratto è stato proposto per la firma entro il 28 ottobre scorso, con un preavviso di sole 24 ore. Al di là dei termini di disdetta, a stupire è questa aristotelica differenza tra lavoro in potenza (l’attesa di un ordine, non retribuita) e in atto (la corsa). Anche perché l’articolo 13 dell’ordinanza concernente la Legge sul lavoro recita: “È considerato durata del lavoro, ai sensi della legge, il tempo durante il quale il lavoratore si tiene a disposizione del datore di lavoro”. Nonostante le obiezioni, i fattorini – o ‘rider’, se preferite l’inglese – stanno già lavorando secondo i dettami del nuovo contratto, anche se l’azienda ha promesso una nuova “forma contrattuale che verrà loro sottoposta prima della fine del corrente mese” (vedi correlato).
È la ‘gig economy’, per dirla ancora una volta all’anglosassone: l’economia dei lavoretti, che però per molti costituiscono la principale fonte di reddito. Nella stragrande maggioranza dei casi, peraltro, stiamo parlando di lavoratori residenti in Ticino. La forza di sistemi come Divoora è la messa in rete di ristoranti diversi sullo stesso territorio: il cliente può usare la sua app o il sito web per ordinare la consegna di cibo da decine di locali diversi, in una specie di megamenù fusion che spazia dal sushi alla polenta. Ai ristoranti – che stando a quanto riportato da alcuni media pagano circa il 30% di commissione su ogni ordine – fa comodo raggiungere clienti anche lontani senza dover assumere un loro fattorino. Ma come ci si lavora?
«Delle volte sono così triste che mi viene da piangere», dice subito Marco, scappato da un precedente impiego perché vittima di mobbing. «La sensazione è quella di vivere in sospeso», aggiunge Anna, che dice di soffrire di «insonnia, inappetenza, per non parlare di quello che può fare una situazione del genere alla tua autostima». Operaia qualificata, viene da un altro ‘lavoretto’ in una di quelle imprese che le promesse fiscali del Cantone hanno fatto spuntare come funghi, e come funghi sono sparite. Non parliamo di studenti che lavoricchiano per pagarsi il concerto o la sbronza con gli amici, ma di persone attorno ai trent’anni. Anna è sposata. Una situazione che li mette in difficoltà anche rispetto a molti colleghi: «Siamo ben più d’un centinaio in Ticino, l’azienda continua ad assumere e in gran parte arrivano persone molto giovani, studenti appunto», così Anna. «Questo significa che forse non hanno la stessa determinazione, la stessa necessità che abbiamo noi di lottare per i nostri diritti. Vivono ancora a casa dei genitori, possono permettersi di accettare condizioni peggiori e in alcuni casi ci guardano con ostilità. Specie nell’ultimo periodo, il nervosismo è aumentato». Marco segue: «D’altronde è il sistema stesso che ci mette in competizione tra di noi, il software sollecita la gara a prendere gli ordini, siamo tempestati di notifiche e messaggi perfino mentre guidiamo». Una sorta di gioco del fazzoletto nel quale però, mentre si aspetta che qualcuno chiami il prossimo ‘numero’, si resta fermi senza guadagnare. Ma di quanti ‘fazzoletti’ stiamo parlando? «Il riscontro è variabile», dice Marco mostrandoci i rendiconti e parlando di un lavoro pressoché a tempo pieno. «Questo mese arriverò forse a incassare mille franchi. Col contratto di prima potevo sperare di arrivare attorno ai 2’800».
Però, ricordiamo ai nostri interlocutori, molta gente non si lamenta. Quelli che hanno fatto sentire la loro voce sono solo una minoranza. Sono felici, gli altri? «Devo ancora vederli, quelli felici», ci dice Anna con tono scettico: «La verità è che hanno paura di esporsi, oppure semplicemente per loro questo lavoro non è una priorità, o sperano che sia una cosa temporanea». Eppure le storie di Anna e Marco lasciano intuire che uscire da questa ‘temporaneità’ non è così facile, che chi deve saltare da un impiego all’altro rischia di cadere nelle fessure del sistema. Sicché, spiega Marco, gli tocca «correre da un capo all’altro, preoccupandoci di rispettare le tempistiche calcolate col sistema satellitare, altrimenti siamo penalizzati in ordini e turni». Turni, precisa Anna, che «sono sì pianificati, ma spesso saltano o vengono aggiunti senza preavviso. Anche questo stressa soprattutto chi con questo lavoro ci deve pagare l’affitto, perché non possiamo permetterci di rifiutare un turno scomodo o nel fine settimana». A gestire tutto c’è un coordinamento per ogni distretto, che però appunto si appoggia ai capricci degli algoritmi con i quali le app orientano il tutto. È cambiato qualcosa dopo la denuncia di lavoratori e sindacati (Unia e Ocst)? «Devo dire che ultimamente ci sono stati clienti che hanno dimostrato solidarietà, che ci lasciano anche più mance del solito», nota Anna. I clienti, già. Anche con loro c’è qualche problema: «Specie se sei donna, le molestie possono capitare: quello che ti apre nudo, quello che ci prova o vorrebbe qualcos’altro». Non che la cosa si risolva con un contratto o sia colpa del datore di lavoro, ma anche questo è un aspetto da tenere in conto. Anche perché, chiosa Marco, «usiamo il nostro smartphone, col nostro numero, e quindi può capitare di ricevere telefonate e messaggi di insulti e minacce a ogni ora del giorno e della notte».
In ogni caso, a entrambi in questo momento è ben chiara quale sia la priorità: trovare sostegno per una battaglia che arriva fino ai nostri pianerottoli. Un sostegno che in parte si sta manifestando, anche se Anna nota come «dalla politica non sia arrivato un grande interessamento. L’unico che ci ha contattati è stato il Partito comunista. Forse gli altri non si interessano perché siamo residenti», ride amara. In che senso? «Beh, se fossimo frontalieri potrebbero dire che tanto la vita in Italia costa meno, o strumentalizzarci per guadagnare voti demonizzando la concorrenza sleale da fuori. Invece siamo ticinesi anche noi». Con delle priorità ben chiare: «Una paga dignitosa, che riconosca il nostro come un lavoro. Un lavoro vero».
*i nomi ovviamente sono di fantasia
La prima obiezione che ci viene in mente è che se Divoora dovesse pagare di più i suoi dipendenti non sarebbe competitiva e le toccherebbe chiudere, e in fondo potrebbe essere normale che a fare certi mestieri sia lo studentello o chi lo sceglie come secondo lavoro, per arrotondare. «Ma così si affronta la questione dalla prospettiva sbagliata», ribatte il segretario regionale di Unia Giangiorgio Gargantini: «Il lavoro ha una sua dignità che va rispettata, e che è sancita dalla legge. Questo contratto va chiaramente contro quella legge. Non si può giustificare lo sfruttamento aggrappandosi alla tesi per cui ad alcune categorie di lavoratori peserebbe meno che ad altri. Tanto più che il nervosismo notato tra i fattorini dimostra quanto nessuno prenda la situazione a cuor leggero. Circa la sostenibilità del modello di business, mi spiace, ma non può essere garantita a scapito dei lavoratori».
Gli fa eco la collega Chiara Landi, che spiega: «Questo non è in alcun modo un contratto di lavoro accessorio. Basta vedere i turni per capire che si tratta di un’attività principale». Quanto al fatto di non retribuire il tempo trascorso in attesa di una chiamata – aggirando di fatto la legge sul salario minimo che entrerà in vigore a fine anno – «mi pare chiaro che è inammissibile spacciare quelle ore passate in attesa, vestiti e con le scarpe ai piedi, come se si trattasse di tempo libero». La soluzione possibile? Per Landi «smetterla di assumere centinaia di persone per contare su un esercito di riserva in attesa di una chiamata e puntare su un nucleo di lavoratori sui quali investire in modo continuativo e sostenibile». Gargantini è ottimista: «Questo scandalo – come pure quello sui tentativi di aggiramento del salario minimo a opera di TiSin – ha scioccato l’opinione pubblica ticinese. Molti hanno aperto gli occhi su una realtà che non conoscevano, anche se comprensibilmente alcuni stenteranno ancora a credere che queste cose siano possibili in Svizzera. Ma non tutti i servizi di consegna adottano lo stesso modello, anche in Svizzera abbiamo modelli virtuosi. Ora attendiamo le proposte di Divoora, con la quale abbiamo aperto un dialogo rimasto però in stand-by».
Abbiamo interpellato Divoora per consentirle di rispondere a critiche e rivendicazioni dei lavoratori e dei sindacati. La direzione si è limitata alla seguente nota, che però potrebbe fare ben sperare: “Divoora, dopo aver aperto il dialogo e incontrato i sindacati nelle scorse settimane prendendo atto delle richieste di una piccola parte dei propri driver, sta elaborando una forma contrattuale che verrà loro sottoposta prima della fine del corrente mese. Premessa che dimostra l’attitudine al dialogo, l’apertura alla discussione e soprattutto la ricerca di una soluzione che da una parte soddisfi le esigenze dei driver che si sono rivolti ai sindacati e dall’altra assicuri la sostenibilità dell’azienda”.