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Il caso Divoora e gli sputi nel panino del lavoro

La società che consegna cibo a domicilio propone ai fattorini un contratto osceno. La sfida nei nuovi settori è enorme, ma per molti va già bene così

(Depositphotos)
3 novembre 2021
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“È già tanto se non mi ha sputato nell’hamburger per ripicca, il poveretto”. “E tu che ne sai che è un poveretto? Sempre il tuo solito paternalismo da radical chic”. “Boh, era intirizzito, mi pareva male in arnese”. “E allora cosa fai, smetti di ordinare a domicilio? Bravo, così gli fai anche perdere il lavoro”. “Secondo te lo pagano decentemente?” “Vabbè, dai, son lavoretti: era un ragazzo, ci tira su due soldi per far serata”. “Guarda che avrà avuto cinquant’anni”. “Però non è che adesso torniamo all’età della pietra, ti ricordi quando dovevi fare il giro della valle per trovare una pizza?” “Ma bisognerebbe essere sicuri che li trattino bene, che abbiano un contratto solido”. “Eh, ora ingessiamo tutta l’economia per un panino”. “E se ci fossi tu, al suo posto?” “Ho capito, ma mica puoi pagare la pizza come un’aragosta”. “Sì, ma…” “Mangia, dai, che si fredda”.

Credo che ciascuno di noi, se e quando ordina cibo a domicilio, si trovi avviluppato presto o tardi in questo tipo di dialogo interiore. Non serve chissà quale coscienza sociale e non è nemmeno questione di essere di destra o di sinistra, fanatici della ‘disruption’ neoschumpeteriana o del luddismo d’antan. Se però va a finire con fattorini pagati al minuto, con pochi centesimi e solo per il tempo della corsa fino all’uscio del cliente, qualche problema si pone.

Il caso di Divoora è emblematico di come l’economia di mercato funzioni anche bene, ma solo se esistono regole chiare. La società ticinese ha messo in rete decine di ristoranti, che alimentano una specie di megamenù digitale dal quale ordinare tramite un’app e farsi consegnare a casa o in ufficio quel che si vuole, dalla quattro stagioni al sushi. I ristoranti sfruttano il servizio per raggiungere nuovi clienti senza dover pagare ciascuno il suo fattorino, i clienti hanno un bengodi dal quale scegliere, la società si occupa dei cosiddetti ‘rider’ e prende una commissione. Un po’ come Uber, ma per il cibo invece che per i taxi.

La grana è che questi servizi restano competitivi non solo grazie alle mitiche economie di scala da manuale del primo anno, ma anche comprimendo il più possibile il costo del lavoro e precarizzandolo, in modo da restare ‘reattivi’ rispetto alle oscillazioni della domanda. Il risultato è che i fattorini hanno lunghi tempi morti non retribuiti e paghe inaccettabili. L’azienda difende il contratto-ultimatum con il consueto solfeggio da emuli della Silicon Valley: la “flessibilità”, la libertà per i dipendenti di “gestire il proprio tempo come preferiscono”, la “situazione win-win” (quando vi fanno una proposta definendola “win-win”, che si tratti di un lavoro o di un matrimonio, datevela a gambe). Nel mezzo finiscono le persone più vulnerabili, a partire da chi si trova in disoccupazione e deve chinare la testa.

Per i sindacati e per la politica la sfida è enorme: si tratta di ottenere condizioni di lavoro umane e sostenibili in realtà nascenti, senza soffocare i cambiamenti tecnologici e sociali che fanno nascere nuovi settori. Salvare il lavoro senza bruciarlo. Compito non facile, specie in un territorio sul quale si affastellano gli ‘incentivi a deviare’ da contratti collettivi e negoziati seri, tra sindacati gialli, dumping, controlli inadeguati e una singolare pertinacia nel raccontare che in realtà va tutto benissimo, avanti così. Col rischio che qualcuno, prima o poi, sputi anche nel nostro panino.

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