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Jabeur, di nuovo, non regge pressione e responsabilità

La tunisina, prima africana a giocare atti conclusivi dello Slam, ha tremato nel momento decisivo, perdendo la seconda finale consecutiva a Wimbledon

‘Un incubo in cui si è coscienti del proprio psicodramma’
(Keystone)
17 luglio 2023
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Ons Jabeur ha il piatto della sconfitta in mano. Fa una giravolta per mostrarlo al pubblico tenendo le dita sugli occhi. Non vuole guardare le persone tristi per lei, e poi che immagine regalerebbe, la autodefinitasi “ministra della felicità”, che piange davanti a tutti. «Verrò malissimo in fotografia», sono le sue prime parole. Prova a sdrammatizzare, ma «è la sconfitta più dolorosa della mia carriera». Nessuno si aspettava quell’immagine all’inizio dell’ultimo atto di Wimbledon: Ons Jabeur di nuovo in lacrime, sconfitta in finale come lo scorso anno, nell’abisso di tristezza generale del Centre Court; dall’altra parte una tennista sfavorita e arrivata lì sotto traccia, raggiante, mostra il piatto più grande: quello della vincitrice.

Una storia già vista

Era successo lo scorso anno con Elena Rybakina, è successo quest’anno con Marketa Vondrousova, prima non testa di serie a qualificarsi per la finale femminile di Wimbledon, diventata la prima non testa di serie a vincerlo. Si era presentata con un curriculum ambiguo da leggere: quasi nessun titolo vinto e due finali importanti perse, al Roland Garros del 2019 contro Barty e ai Giochi Olimpici di Tokyo contro Belinda Bencic. Una carriera fin qui costellata di infortuni al polso che ne hanno sempre frenato l’ascesa.

Alla fine del 2022 era caduta al numero 99 della classifica mondiale. Prima di questo Wimbledon aveva vinto appena 4 partite su erba. Lo scorso anno, operata al polso, era venuta a Wimbledon da spettatrice, da turista. Eppure il suo gioco era già tutto lì per brillare sul verde, col suo gancio mancino, la capacità di variare i colpi, un tocco niente male. Il suo servizio in slice è diventato subito molto difficile da controllare per le sue avversarie. Mentre andava avanti nei turni, continuava a non credere a quello che le stava capitando: «Ero venuta per vincere un paio di partite. Quando siamo su terra o su cemento sì, avrei detto che è possibile. Ma su erba era impossibile per me, è folle quello che mi sta succedendo».

Ha giocato un torneo solido ma senza grandi acuti fino alla semifinale, quando si è guadagnata la fama di spezzacuori battendo Elina Svitolina. Una tennista ucraina, diventata madre pochi mesi fa, wild card del torneo. Col suo Paese in guerra e un corpo ancora in ripresa dalla gravidanza, stava giocando un grandissimo tennis. Vondrousova era la meno tifata anche in finale, e non è difficile capire il perché. Jabeur è la prima giocatrice africana ad arrivare in una finale Slam, una donna araba. Una donna che gioca non solo per sé stessa, ma anche per una nazione, persino per un continente, per una cultura. Dice che la cosa non le mette pressione ma è uno stimolo in più. «La pressione è un privilegio», si ripete raggiante insieme a suo marito, che è anche il suo fisioterapista, l’ex schermidore Karim Kamoun. Ha lasciato la sua carriera per mettersi a disposizione di quella della moglie. La sua idea è condivisa: «Vi immaginate come sarebbe se una donna araba e africana vincesse un Grande Slam? Una cosa grande non solo per l’Africa, ma per il mondo».

È l’idea di tutti quelli che tifano Ons Jabeur: non ce l’hanno con le sue avversarie, ma sarebbe semplicemente troppo bello che lei ce la facesse. Bello e importante. Lo scorso anno dopo la finale persa con Rybakina il suo allenatore l’aveva rassicurata: «È tutta esperienza. Il nostro obiettivo è l’anno prossimo». Nel 2022 Jabeur aveva fatto la sua favolosa irruzione ai vertici del tennis. Si era data tre obiettivi: vincere più tornei, entrare in top-5, vincere un Grande Slam. I primi due li aveva centrati, fermandosi proprio sulla soglia dell’ultimo: rimontata in tre set a Wimbledon da Rybakina, che poi abbiamo scoperto essere una campionessa. Tornata nel suo Paese, era stata accolta da una festa presidenziale: «Mi sembrava di essere io la vincitrice».

Il sogno di una vita

L’anno scorso Serena Williams l’aveva scelta per giocare il doppio insieme. «Perché ha scelto proprio me?», si chiedeva, incerta e imbarazzata. Ai microfoni vicino a Serena appariva piccola e determinata: «Voglio raccontare la mia storia, è arrivato il mio momento». Il suo momento in questo Wimbledon sembrava davvero arrivato. Un torneo manifesto, in cui ha battuto le migliori avversarie possibili, la numero 1 Iga Swiatek e l’aspirante numero 1 Aryna Sabalenka. Le ha battute in partite durissime ma nobilitate dalla raffinatezza del suo gioco. È impossibile non innamorarsi del tennis di Ons Jabeur, della sua inventiva, del suo estro. A Wimbledon il suo tennis fiorisce: niente più dell’erba esalta la sensibilità tennistica, i colpi frutto di un pensiero controintuitivo.

Wimbledon è infatti il suo sogno da bambina: «È davvero il motivo per cui ho iniziato a giocare a tennis». Ha fatto una foto al trofeo di Wimbledon e la tiene come sfondo del suo telefono; quando vince batte i palmi sul prato come per ricordarsi di essere lì dove ha sempre sognato. Durante il torneo ha dimostrato di poter gestire la potenza di qualsiasi giocatrice, assorbirla e farla sbocciare in qualche colpo bellissimo ed estemporaneo. Si rimprovera spesso al tennis femminile di essere monotono, e Jabeur sembra essere arrivata per spezzare queste monotonia. In finale Vondrousova, però, le avrebbe proposto problemi completamente diversi. Un’altra tennista brava a variare, che preferisce la tecnica e l’astuzia alla forza. «Siamo uguali, per certe cose», aveva notato la ceca. Jabeur aveva perso già agli Australian Open e a Indian Wells contro Vondrousova, ma sull’erba era considerata favorita: «Vengo per prendermi la rivincita».

Il blackout

C’è stato un momento della partita di sabato, però, in cui Ons Jabeur aveva dimenticato tutto questo. Aveva dimenticato la sua storia: da dove venisse, cosa sapesse fare. Non riusciva a rimandare una pallina dall’altra parte della rete e sembrava non poterci fare niente. L’ambizione di vincere Wimbledon l’aveva spinta fin lì, ma ora quell’ambizione era una prigione di ansia e paura di non potercela fare.

La partita è diventata allora dolorosa da guardare. Questo momento è arrivato verso la fine di un primo set condizionato dalla tensione di entrambe. Jabeur si è spezzata. Il suo tennis ha perso il filo. Perde 23 dei 25 punti a cavallo tra il primo e il secondo set. Si ferma, guarda per terra e, tirando un profondo sospiro, prova a ricomporsi. Sta vivendo il trauma di essere finita in un brutto posto mentale nella partita più importante della propria carriera. Giocare guardandosi da fuori mentre si fallisce. Un incubo in cui si è coscienti del proprio psicodramma, e per questo si è ancora più impotenti. Jabeur si è preparata tutta la vita per quel momento, ogni istante passato su un campo da tennis l’ha portata a quello. E lì si è ritrovata incapace di esprimersi, imprigionata nella tensione. Il tennis forse è l’unico sport in cui si può perdere così clamorosamente contro sé stessi.

Sembrava non poterne uscire, ma è tornata in partita nel secondo parziale. Dall’1-0 sotto nel secondo set ha vinto 14 dei 16 punti successivi. Abbiamo rivisto sprazzi del suo tennis fantasioso. Vondrousova però a quel punto stava giocando la partita giusta: solida, presente, di fronte a un’avversaria a pezzi. La fiammata di Jabeur, a metà del secondo set, è stata prontamente riassorbita da Vondrousova, con la pesantezza del suo rovescio, con l’insidioso slice del suo servizio.

Allora Jabeur si è di nuovo spezzata. Il suo gioco si è scombinato: la varietà, uno dei suoi punti di forza, è diventata confusione. Nei momenti di difficoltà non avere un gioco essenziale come molte altre tenniste è uno svantaggio per lei. Jabeur sembra complicare le cose proprio nel momento in cui avrebbe bisogno di farle semplici. Quando la ceca ha chiuso il match con una volée in avanti, ci siamo ritrovati per paradosso a essere sollevati per Jabeur: la sua agonia era finita.

Una grande tradizione

«Come hai fatto a restare così calma?», ha chiesto incredulo a Vondrousova il suo coach. Dice che è stata la chiave della sua vittoria. La ceca ci ha ricordato l’importanza di esserci, di essere presenti a sé stessi nei momenti di massima pressione. La vittoria di Vondrousova è stato un anti-climax per chi era allo stadio, e anche per la narrazione tennistica. La ceca si è trovata spesso dalla parte della carnefice, anche quando ai Giochi Olimpici di Tokyo aveva eliminato Naomi Osaka, beniamina locale, custode della fiamma. La sua vittoria però non si può considerare un’autentica sorpresa. Se Jabeur è la pioniera di un movimento tennistico ancora acerbo, Vondrousova è l’ultima esponente della lucente tradizione del tennis ceco.

Una nazione con 10 milioni di persone e 8 tenniste in Top-50. Nella tradizione di Martina Navratilova, Jana Novotna, Petra Kvitova, Karolina Pliskova, Barbora Krejcikova, Karolina Muchova, ultima finalista del Roland Garros. Tenniste raffinate, che hanno capito a fondo che il tennis è un arte del tempo. Questo si può manipolare fino a portare le avversarie su un territorio confuso, di ritmi spezzati e discontinuità. Per dire quanto è circoscritta e compatta questa tradizione, Vondrousova viene dallo stesso club di Barbora Krejcikova: quanti circoli di tennis possono vantare due campionesse Slam?

Vondrousova è mancina come Navratilova e Kvitova, 11 titoli a Wimbledon in due, e come loro quando le cose si mettono male può affidarsi al suo servizio in slice. Da giovane era considerata un piccolo prodigio: semifinalista juniores a Parigi e a Londra, ex numero 1 del ranking giovanile, a 17 anni aveva vinto il suo primo titolo Wta a Bienne senza perdere un set, battendo in finale la forte Anett Kontaveit.

Il Telegraph le aveva dedicato un articolo entusiasta: «La 17enne ceca Marketa Vondrousova vince il titolo, con il miglior drop shot mai visto e una straordinaria creatività nei colpi». Sei anni dopo la promessa di Vondrousova si è compiuta, pur passando per una strada più tortuosa del previsto, facendoci nel frattempo dimenticare che il suo è un tennis da vincitrice Slam. Almeno lo è nel panorama altamente incerto del tennis femminile negli ultimi anni, caratterizzato da un livello medio-alto ma dall’assenza di vere dominatrici.

Ons Jabeur ha detto che tornerà più forte, che tornerà per vincere. Ma come ci si riprende da una sconfitta simile? Lei ne fa solo una questione di motivazione: «So che se voglio molto qualcosa, me la prenderò», ma la finale di Wimbledon ha dimostrato che questo eccesso di desiderio può essere talvolta paralizzante. Lo diceva anche il Buddha: desiderare troppo qualcosa può diventare un veleno pericoloso.


Keystone
‘Ero venuta per vincere un paio di partite’