Il tennis come scuola di vita, le nuove sfide, i consigli ai giovani, Roger Federer (ma non troppo). Intervista all'ex n. 52 al mondo: 'Contento della mia carriera'.
Due cesti di palline, un paio di racchette e un borsone sono appoggiati all’uscita dello spogliatoio. «Sono i suoi» ci dice, sicuro, un ragazzo ticinese impegnato nel torneo in corso sui campi del Tc Ascona. Nel suo tono l’emozione di poter incrociare un ex giocatore dal palmarès di tutto rispetto. Pur non avendo una bacheca piena di trofei, agli occhi del giovane tennista Marco Chiudinelli è uno che ce l’ha fatta; per cui vale la pena vincere il timore di essere inopportuni per chiedergli di scattare una foto assieme (il basilese si presterà volentieri). Lo abbiamo incontrato durante una pausa del campo di allenamento di quattro giorni, organizzato in Ticino su richiesta di alcuni clienti.
Com’è stato smettere la vita di sportivo professionista?
La nuova quotidianità ha sia pro che contro. Credevo che avrei avuto più tempo libero, invece è il contrario - ride -. I momenti per me ora li posso trascorrere in Svizzera e ciò mi piace. D’altro canto mi manca un po’ viaggiare. Prima mi spostavo in continuazione; però durante i tornei, tra gli allenamenti o tra una partita e l’altra, si ha un sacco di tempo libero in cui si può leggere o rilassarsi. Adesso sono più occupato. In particolare in questo momento, in cui la mia attività ha subito pesantemente il lockdown a causa del coronavirus. Molti miei progetti sono stati cancellati e sto cercando di rimetterli in piedi in vista dell’anno prossimo. Ho parecchio da fare, dunque, ma sono felice perché lavoro per me stesso, facendo ciò che amo. Rispetto alla vita da sportivo, vivo emozioni meno forti di quelle che si provano in campo. In realtà sono sentimenti diversi: quando avvio un progetto, è una sfida; a volte si riesce, altre no. Per certi versi è come nello sport: c’è una certa tensione, mi chiedo se ce la farò e, quando riesco, sono soddisfatto.
Non ti manca l’adrenalina della competizione?
Raramente.Quando in tv vedo una partita di un grande torneo, può succedere di dirmi che avrei potuto magari fare meglio qua o là. Forse capita di rimpiangere qualche scelta, ma credo che sia normale nella vita. Se mi guardo indietro, lo faccio con il sorriso. È qualcosa che non ho più, ma è stato un percorso talmente bello che prevale la gioia di averlo potuto vivere. Ho avuto una carriera molto più lunga di quanto avrei mai immaginato all'inizio.
Diciotto anni di carriera, condizionata da diversi guai fisici. Hai rimpianti rispetto a questo? Pensi mai che avresti potuto avere più successo?
Ho perso parecchi mesi a causa di problemi a un ginocchio, a una spalla e a un gomito che hanno necessitato interventi chirurgici; oltre che di dolori alla schiena. Il primo infortunio era stato una sorta di svolta, da cui avevo tratto degli insegnamenti. Avevo capito quanto fosse essenziale la salute e da allora ho apprezzato maggiormente il poter giocare senza avere male. Avevo iniziato ad allenarmi con ancora più concentrazione e dopo quel primo stop forzato, avevo giocato perfino meglio. Il secondo e il terzo infortunio, invece, non ci volevano proprio. In particolare il secondo, a soli nove mesi dal rientro, dopo la Coppa Davis del 2007 quando sconfissi Fernando Verdasco e David Ferrer. In breve tempo ero stato capace di arrivare a ridosso dei cento migliori giocatori al mondo e credo che avessi la possibilità di compiere il grande salto. Dovetti invece restare fermo per ben un anno e mezzo. Però beh, questa è la mia storia e non voglio vederci solamente il lato negativo. Fa parte di me e, comunque, ero poi riuscito a entrare nella Top 100. In generale sono molto, molto soddisfatto della mia carriera.
Dal tennis hai imparato qualcosa che ti serve nella vita?
Oh sì, parecchie cose! Potremmo stare qui a parlarne per ore, ma purtroppo non ne ho il tempo - ride -. Nel mio lavoro attuale, nei progetti che provo a realizzare, posso usare molto di ciò che ho appreso grazie allo sport. Aspetti come la costanza, la disciplina, la capacità di concentrarsi su un obiettivo. Ma anche l’affidabilità e il lavoro di squadra, sebbene possa apparire strano da dire per uno sport per lo più individuale. Mi spiego. Come giocatore devi costruire il tuo team, di cui sei il ‘capo’: tu paghi l’allenatore, il fisioterapista, il preparatore fisico; e tutto deve funzionare bene assieme, così che tu possa riuscire in campo. Come dicevo, la lista degli insegnamenti che ho tratto dal tennis è lunga. Io non ho proseguito gli studi e quindi ci sono cose che non so; d’altra parte ce ne sono altre che ho appreso letteralmente sul campo. Viaggiando, ad esempio, si entra in contatto con numerose culture; si conoscono tradizioni, storia e abitudini diverse dalle proprie. Si impara ad andare d’accordo con persone provenienti dal mondo intero e per questo differenti tra loro. Ed è importante, perché l’avversario contro cui giochi un giorno, la settimana seguente potrebbe essere tuo partner in doppio. Questa capacità a rapportarsi con tutti, è utile sempre, non solo nello sport. Sotto molti aspetti, per me il tennis è stato una vera e propria scuola di vita.
Segui ancora il circuito professionistico?
Cerco di mantenere i contatti con quell’ambiente, che conosco. Siccome collaboro con i media, mi informo su cosa succede. Inoltre ho ancora amici che giocano. Non sto con il cellulare sempre in mano a guardare risultati o partite in streaming; però se posso, non mi perdo i big match. Dal vivo assisto a numerosi incontri degli Swiss Indoors di Basilea e del torneo di Gstaad; gli ultimi due anni sono andato anche a Indian Wells.
Non eri il giocatore più talentuoso, ma hai saputo arrivare ad alto livello. Quali consigli daresti a un giovane giocatore?
Anzitutto gli direi che deve amare ciò che fa. Si deve avere una profonda passione per il tennis, poiché richiede molti sacrifici. Tanto più se si vuole provare a diventare professionista: i primi anni sono durissimi; anche dal punto di vista finanziario, agli inizi è necessario investire parecchio, per darsi una possibilità. Se si sente dentro il “fuoco” allora il mio consiglio è di lavorare duramente, ma al contempo di essere realisti sulle proprie potenzialità. In tal senso è essenziale avere un entourage competente e onesto. Capace cioè di parlare chiaramente a un giovane, in merito alle sue possibilità di riuscita. Se si ritiene che ci siano i presupposti per tentare il professionismo, un giovane dev'essere cosciente che la strada richiede tanto lavoro, disciplina e capacità a dare il massimo ogni giorno. Se invece l’opinione dell’entourage è diversa, non ci si deve abbattere. Ci sono tante altre vie che aprono porte interessanti: si può essere un giocatore di un college, combinando quindi sport e studio; oppure un ottimo tennista a livello nazionale, con il tempo di dedicarsi pure a una formazione.
Il tuo nonno era originario delle Centovalli, dove fin dall’infanzia hai trascorso periodi di vacanza. Quale lato di Marco Chiudinelli è ticinese?
Mah - sorride -, credo di essere una persona aperta, espansiva e che va d’accordo con gli altri. Quindi in Ticino mi trovo bene; qui la gente è più sorridente e socievole rispetto al carattere svizzero tedesco, maggiormente riservato. Un mio lato ticinese credo sia anche l’investimento che metto nello sport. Ricordo che dopo aver vinto la Coppa Davis nel 2014, s’era fatto un tour per presentare il trofeo in dieci località: una tappa fu a Bellinzona, un paio in Romandia e le altre in Svizzera tedesca e tra le varie regioni si avvertiva la differenza di quanto lo sport appassioni o meno. Io avevo sentito l’affetto dei ticinesi nei miei confronti, il loro apprezzamento per quella che riconoscevano essere una bella carriera e per essere stato numero cinquanta al mondo. Anche la capacità di vedere il positivo in ogni persona, è qualcosa che mi appartiene e forse anche in questo sono un po’ come voi. Altrove, invece, avevo l’impressione che il mio percorso sportivo fosse ritenuto mediocre. Se poi il paragone - sorride - è con Roger Federer...
Già, Roger Federer. È dura essere considerato l’altro basilese?
A conti fatti, direi di no. Fin dalle categorie junior io sono stato meno bravo di lui e sono sempre stato cosciente che tra noi ci fosse un ‘gap’. Quando poi iniziammo le nostre carriere da professionisti, attorno a me ho voluto mettere in chiaro che io sono io, Roger è Roger. Con i giornalisti, ad esempio, sono stato schietto: se volete intervistare me solo per parlare di Federer, non ci sto. Cioè: se su dieci domande, una o due sono su di lui ok; ma se sono cinque o sei, non parlo. Di norma lo capiscono, ma è capitato che mi si sparasse addosso nei media proprio perché non ero d’accordo di rilasciare un’intervista discutendo quasi unicamente di Roger. Al di là di questo, in tutti questi anni ritengo che essere contemporaneo a un campione come lui, abbia avuto più pro che contro. Prendi la Coppa Davis: preferisco di gran lunga averla vinta come terzo giocatore della squadra sebbene non abbia giocato in finale, piuttosto che essere il numero uno di un team che non l’ha mai conquistata.
A proposito di Coppa Davis. Cosa rappresenta per te in una parola?
Mh... In una sola parola è difficile. Direi - risponde dopo averci pensato - “orgoglio”. Perché sono stato davvero fiero di aver potuto rappresentare la Svizzera. Sì, la Coppa Davis riassunta in una parola è “orgoglio”.
Terminato il camp Marco Chiudinelli si concederà alcuni giorni in vacanza nella casa di famiglia a Corcapolo, prima di tornare al lavoro. Chiuso il lungo capitolo da professionista, con l’ultima partita giocata nel 2017 agli Swiss Indoors nella sua Basilea, oggi è titolare della Chiudinelli Management and Consulting. «Mi occupo di diverse cose. Tra le principali c’è l’organizzazione di campi di allenamento in Svizzera e all’estero (ad esempio ad Halle, sull’erba, o in Spagna). Ne propongo una decina all’anno di una settimana, con preparazione individuale o al massimo a coppie. Tutti i coach sono ex giocatori professionisti come me, uno di loro è stato nella top 20; inoltre abbiamo a disposizione il fisioterapista che aveva seguito la squadra svizzera di Davis. Un’altra possibilità è il camp à la carte, più corto e pianificato in base alle esigenze dei clienti. Quello di Ascona è uno di questi; due settimane prima eravamo a Zermatt». La sua - specifica il già numero 52 al mondo - non è una scuola di tennis, né lui impartisce lezioni settimanali. «A volte - scherza - la mia attività assomiglia a un’agenzia di viaggi, poiché oltre alla parte sportiva organizzo spostamenti e alloggio. Ho scelto Ascona dato che conosco bene la regione del Locarnese; c’è una buona offerta alberghiera e la struttura ha campi da tennis esterni e coperti utilizzabili in caso di pioggia. Non ce ne sono molte così in Svizzera».
Con la sua compagnia spazia in altri ambiti. «Organizzo un campionato di golf per aziende; faccio consulenze di vario genere, dalla ricerca di allenatori alla realizzazione di una nuova struttura di tennis coperta; collaboro con i media. Tengo ad esempio una rubrica sulla Basler Zeitung e quindi - sorride - sono un po’ un tuo collega». Forse su carta; di certo non sul campo che, a certi livelli, resta terreno per pochi.