Il Mondiale del 2018 fu occasione di rivalsa dei piccoli sui grandi, compreso Maradona, che riuscì a far modificare l’agenda al despota di Mosca
Fino a pochi anni fa, se qualcuno aveva sentito parlare dell’Islanda era quasi soltanto per via di vulcani e pecore, che lassù in cima al globo terracqueo certo non scarseggiano. Ma poi, grazie a un paio di eventi fortunati, l’isola del Nord divenne di colpo un po’ meno sconosciuta. A sdoganare per primo la Terra dei ghiacci fu ‘I sogni segreti di Walter Mitty’, visionario film di Ben Stiller del 2013 che illustrò al grande pubblico la bellezza dei suoi paesaggi. Il secondo grande sponsor fu la Nazionale islandese di calcio, che qualificandosi per i Mondiali disputati in Russia nel 2018 mostrò al mondo di cosa erano capaci, sportivamente parlando, gli eredi dei vichinghi. Per nulla scossi dal gol segnato dall’argentino Agüero nei primi scampoli della gara d’esordio, gli islandesi seppero pareggiare quasi immediatamente e – grazie al portiere Halldorsson che parò un rigore nientemeno che a sua maestà Lionel Messi – riuscirono a portarsi a casa un punto contro una delle squadre più importanti della storia del pallone. Buona la prima, dunque, per un Paese che ancora qualche anno fa deteneva tutti i record mondiali relativi a suicidi e alcolismo – specie fra i giovani – e che invece oggi, dopo una poderosa sterzata politica e morale, sforna il più alto numero al mondo di rock band, romanzieri e calciatori professionisti, fatta naturalmente la tara sul dato demografico, che è di 360mila anime, pari a quello del Canton Ticino.
Si calcola che a intraprendere la trasferta in Russia per seguire le partite della Nazionale alla Coppa del mondo sia stato addirittura un decimo dell’intera popolazione. E altrettanto gli islandesi avevano fatto un paio d’anni prima verso la Francia in occasione di un’altra storica qualificazione, quella dell’Europeo 2016, dove i vichinghi raggiunsero addirittura i quarti di finale dopo aver pareggiato contro l’Ungheria e il Portogallo di Ronaldo e aver battuto l’Austria e l’Inghilterra di Rooney e Kane. Quello conquistato a Mosca contro l’Argentina rimase l’unico punto raccolto ai Mondiali da Bjarnason e compagni, che comunque non sfigurarono né in campo né sugli spalti, dove il canto dei loro sostenitori – una specie di Haka boreale capace di coinvolgere fan e giocatori e che ricorda il ribollire dei geyser di cui l’isola abbonda – piacque così tanto da indurre alcune tifoserie a farlo proprio per riproporlo in tutto il mondo non solo negli stadi calcistici ma pure nelle piste di hockey, nei palazzetti del basket e altrove.
In questa rivista di storie che ricordano la vicenda di Davide contro Golia non può mancare quella della Croazia, che di abitanti ne ha più dell’Islanda ma certo moltissimi meno della maggior parte dei Paesi solitamente padroni del calcio mondiale. Gemella nell’eccezione dell’altrettanto minuscolo ma vincente Uruguay, la Nazionale balcanica nel 2018 riuscì addirittura a migliorare l’exploit realizzato nel 1998, quando era giunta sul terzo gradino del podio. I croati infatti in Russia si arresero alla Francia soltanto in finale, dopo aver bastonato lungo il loro cammino – oltre alla Danimarca e all’Islanda di cui si diceva prima – istituzioni del football come Argentina e Inghilterra e ciclopi demografici come i nigeriani e i russi, che per giunta erano pure i padroni di casa. A combattere contro la prepotenza dei giganti nell’estate del 2018 – in questo caso linee aeree e albergatori che in occasione dei Mondiali applicarono tariffe esorbitanti – furono anche tre anziani cittadini elvetici copiosamente muniti di fantasia, oltre che di tempo libero. Beat Studer, Werner Zimmermann e Josef Wyer decisero infatti di raggiungere Kaliningrad – exclave russa sul Baltico fra Polonia e Lituania – a bordo di un trattore agricolo. In realtà, dietro quell’impresa durata quattordici giorni lungo un percorso di quasi 1’900 km, c’era un’idea seria ed encomiabile: cercare di raccogliere più denaro possibile da destinare a progetti di associazioni svizzere a favore dell’infanzia. E la missione fu doppiamente compiuta: i tre benefattori giunsero in città in perfetto orario per assistere al match Svizzera-Serbia e, soprattutto, riuscirono a mettere insieme oltre 18mila franchi per la loro nobile missione.
A proposito di infanzia violata diremo che fra i 736 calciatori convocati per i Mondiali russi ce n’erano almeno un paio che si portavano dietro il fardello di storie personali cominciate in modo infinitamente triste ma poi risoltesi al meglio – nei limiti del possibile, si capisce – anche grazie allo sport. Pure qui, piccoli Davide che lottano e infine sconfiggono Golia, che può presentarsi nelle forme più svariate e tremende. La prima è la vicenda del centrocampista polacco Jakub Blaszczykowski, che quando aveva dieci anni assistette in prima persona alla scena peggiore che si possa immaginare: sua madre uccisa a coltellate da suo padre. Portato a vivere con la nonna materna e uno zio ex giocatore, proprio nel calcio Jakub trovò un’àncora di salvezza, un faro nella notte più buia. «Non dimenticherò mai quel giorno», raccontò più volte. «Mi ha sconvolto la vita, ma mi ha anche dato la forza per andare avanti e diventare quello che sono. Adesso non mi spaventa nulla, ho già vissuto il peggio». Da sempre, ogni volta che segna un gol, Blaszczykowski guarda verso il cielo e dedica la rete alla sua mamma. Identico destino terribile ebbe pure il nigeriano Victor Moses, che più o meno alla stessa età del suo collega polacco perse entrambi i genitori nel modo più tragico. Nel bel mezzo della guerra civile fra la maggioranza musulmana e la minoranza cristiana, il padre di Victor – pastore protestante – fu trucidato insieme alla moglie dagli estremisti islamici di Boko Haram che fecero irruzione nella loro abitazione. Il ragazzino si salvò soltanto perché, al momento dell’agguato, era fuori casa. Rifugiato grazie a parenti in Gran Bretagna, dove chiese e ottenne asilo, fu poi accolto da una famiglia inglese che si prese cura di lui aiutandolo, se non a superare del tutto il trauma, almeno a conviverci in maniera accettabile.
Contro demoni, fantasmi di varia natura e Grandi della terra dovette – e volle – lottare per tutta la sua pur fortunata vita anche Diego Armando Maradona, che al Mondiale russo del 2018 fu presente fin dai giorni in cui fu effettuato il sorteggio dei gironi del primo turno della fase finale. Invitato con altre ex stelle del pallone alla cerimonia dell’urna e ad altre manifestazioni di contorno, El Pibe se ne stava una sera in hotel a fare zapping quando ricevette una telefonata. Fu avvertito che quello smargiasso di Putin, desideroso di conoscerlo di persona, lo aspettava al Cremlino l’indomani per le 11 del mattino. In smoking, naturalmente. Significava doversi svegliare alle nove e mezza, una cosa per Diego nemmeno immaginabile. «È lui che vuole incontrare me, mica il contrario», disse all’interprete. «Di’ a quel Reputín del orto», continuò adattando alla bisogna uno dei più classici insulti argentini, «che per nessuna ragione al mondo mi metterò in abito da cerimonia prima del tramonto. E soprattutto fagli sapere che la Tota, quella santa donna di mia madre, non si è mai permessa nemmeno una volta in vita sua di venirmi a svegliare prima di mezzogiorno, e che quindi faccia il piacere di adeguarsi pure lui». E così fu: champagne, caviale, panna acida e blinis furono rimandati alle 18.30, e lo zar bulletto nato a San Pietroburgo poté finalmente stringere la mano al Pelusa di Villa Fiorito.
Questa è l’ultima puntata di una serie dedicata alla storia della Coppa del mondo di calcio che, dalla scorsa estate, ci ha accompagnato fino alla vigilia di Qatar 2022, torneo che si aprirà il 20 novembre.