Ai primi Mondiali nel Continente nero, la squadra africana arrivò a un passo da una semifinale da record, ma il sogno svanì all’ultimo minuto
Fu solo nel 2010 – col terzo millennio cominciato ormai da un pezzo – che il Continente africano si guadagnò il diritto di ospitare una grande manifestazione sportiva. Onere e onore dell’organizzazione della Coppa del mondo di calcio toccarono al Sudafrica, Paese retto fino a pochi anni prima da un regime bianco che, per via del razzismo su cui si fondava, dalle maggiori kermesse muscolari era stato più volte bandito. E che, quando invece ciò non avveniva, induceva la maggior parte delle altre nazioni africane, per protesta, a disertare a loro volta Olimpiadi o altri eventi. Il valore simbolico dell’assegnazione dei Mondiali a Pretoria, dunque, era tanto alto quanto le aspettative che gravavano sulle squadre del Continente nero che vi avrebbero preso parte. Da almeno una ventina d’anni infatti, fra gli addetti ai lavori spuntava qualcuno a proclamare – per ruffianeria o per convinzione – che finalmente era giunto il momento di vedere laurearsi campione proprio una nazionale africana. Affermazioni eccessivamente ottimistiche: in realtà, anche soltanto il raggiungimento di una semifinale sarebbe stato salutato come un successone. Mai una volta, infatti, in ottant’anni di Coppa del mondo, una formazione proveniente da quella parte del pianeta aveva saputo infilarsi fra le prime quattro. Il fatto che il torneo si disputasse proprio in Africa, però, faceva sperare anche i più scettici che si trattasse davvero della volta buona.
Presenti al Mundial dal 1934 grazie all’Egitto (subito eliminato dall’Ungheria), le compagini africane non furono più in grado di tornarvi fino al 1970, quando a sbarcare in Messico fu il Marocco: era la prima volta che all’Africa veniva assegnato di diritto un posto alla fase finale.
Fin lì, infatti, il solo lasciapassare a disposizione del Continente nero era da contendersi, tramite spareggio, con formazioni di altre zone del mondo. Dal 1982, col Mondiale allargato a 24 squadre, i pass riservati all’Africa divennero due, e finalmente si vide qualche progresso. Il Camerun non superò la prima fase solo per la differenza reti favorevole all’Italia futura vincitrice, mentre a negare il passaggio del turno all’Algeria fu un biscotto infornato da Austria e Germania Ovest, che chiusero l’ultima partita sull’unico risultato che avrebbe qualificato entrambe, cioè l’1-0 a favore dei tedeschi. Dopo il gol di Hrubesch a inizio gara, ci fu una vergognosa melina di 80 minuti passata alla storia come il Patto di non belligeranza di Gijon, mascherata che indusse la Fifa, dall’edizione seguente, a far giocare in contemporanea le ultime gare dei gironi eliminatori.
La prima compagine africana a superare la fase a gironi fu il Marocco che, nell’’86, fu eliminato agli ottavi dalla Germania poi finalista. Ancor meglio fece il Camerun nel ’90 in Italia. Chiuso il girone davanti a Romania e Argentina, Roger Milla e compagni si erano poi sbarazzati della Colombia grazie al portiere sudamericano Higuita, che essendo matto da legare era uscito palla al piede fino a metà campo, dove aveva tentato di dribblare il vecchio centravanti africano ma regalandogli di fatto il gol che proiettava i Leoni Indomabili nella storia: mai nessuna selezione africana, fin lì, era entrata fra le migliori otto al mondo. Con più fortuna, i camerunesi sarebbero andati addirittura in semifinale: a 10 minuti dal termine contro l’Inghilterra infatti erano in vantaggio 2-1, e ci vollero i supplementari e ben due rigori trasformati da Lineker per qualificare gli altri Leoni, quelli europei.
La via pareva dunque tracciata, ma per ritrovare un’africana ai quarti di finale bisognò attendere il 2002, grazie al Senegal. Giustizieri all’esordio della Francia campione in carica ed ex padrona ai tempi delle colonie, i Leoni (a ridàje) della Teranga si erano poi sbarazzati negli ottavi della Svezia del giovane Ibrahimovic. E, ai quarti, avevano sfiorato il miracolo: tenuti i turchi inchiodati allo 0-0, vennero privati della semifinale soltanto da un golden goal nel primo supplementare.
Archiviati i Mondiali del 2006 senza rilevanti tracce africane, le speranze di stabilire un nuovo record si riaccesero nel 2010, quando come detto il torneo si sarebbe giocato in casa: quale occasione migliore per vedere finalmente una squadra di quel continente approdare in semifinale? E la chance in effetti capitò sui piedi del Ghana che, superati gli Usa agli ottavi, nei quarti si ritrovò a sfidare l’Uruguay del Maestro Tabarez. E lo faceva a Soweto – sobborgo di Johannesburg simbolo dell’emancipazione nera – col favore dello stadio intero. Smaltita la delusione per l’eliminazione della propria nazionale già al primo turno, i tifosi sudafricani – con le loro vuvuzela frantumagonadi – si erano infatti schierati in massa, e logicamente, per il Ghana.
L’avversario era nobilissimo: l’Uruguay aveva infatti vinto due Mondiali e due Olimpiadi ai tempi in cui il torneo a cinque cerchi valeva come titolo iridato. Nella storia recente, però, la Celeste di gloria ne aveva raccolta pochina: l’ultima semifinale risaliva a quarant’anni prima. L’impresa, dunque, non era impossibile. E anzi divenne addirittura probabile quando, allo scadere del primo tempo, il ghanese Muntari decise di sparare da 40 metri il più ignorante dei tiri. Una follia che il portiere uruguagio Muslera volle premiare facendosi infilare come un dopolavorista miope. L’illusione, però, durò poco: al 10’ della ripresa, infatti, il divino Forlan ristabiliva la parità con un calcio di punizione da urlo. Colpa però, almeno in parte, di Jabulani, il leggerissimo pallone ufficiale del torneo, odiato dai portieri per le traiettorie ubriache che amava prendere. Poi non successe più nulla fino al 90’, e neppure i supplementari, fino al 119’, passarono alla storia. Ma l’ultimo minuto di partita, e tutto ciò che ne seguì, seppero guadagnarsi un posto imperituro nella leggenda dei Mondiali. Nemmeno il più in gamba degli sceneggiatori – o il più perverso – avrebbe infatti saputo imbastire una trama più avvincente.
I ghanesi, stremati, tentano un’ultima sortita guadagnandone una punizione sulla trequarti. I sudamericani, temendo la beffa all’ultimo secondo, vorrebbero che Benquerença fischiasse e mandasse tutti a tirare i rigori. Ma secondo il portoghese c’è ancora tempo per battere il calcio piazzato. Così Pantsil serve Boateng, che di testa devia verso Muslera. Il guarda meta orientale fa per respingere di pugno, ma un avversario lo anticipa e, di capoccia, libera un compagno davanti alla porta sguarnita. L’africano spara a botta sicura, ma Suarez respinge sulla linea. La sfera colpisce la testa di Adiyiah e finirebbe dritta in rete se lo stesso Suarez non provvedesse, stavolta con le mani, a impedirglielo. L’arbitro non può fare altro che fischiare il rigore ed espellere il centravanti uruguayano. Tutto ciò, a tempo scaduto: a dividere il Ghana dalla Storia ci sono soltanto 11 metri. Mensah si mette a danzare invasato come se il rigore fosse già stato segnato. E fa male, perché di solito porta rogna. Sul dischetto si presenta Asamoah Gyan, che nelle massime punizioni è ritenuto infallibile. Ma stavolta, come nei migliori thriller, invece di infilarsi in porta per regalare a un intero continente la semifinale che sogna da 80 anni, la palla scheggia la traversa e si perde nel cielo nero di Soweto. Muslera balza due volte ad accarezzare l’asta così benevola nei suoi confronti. Gyan, invece, piomba nel peggiore degli incubi. L’espulso Suarez pare tarantolato: il suo immolarsi non è stato vano. Mai nessuna partita nella storia dei Mondiali ebbe un finale così folle. Finale, poi, per modo di dire: si rimaneva infatti sull’1-1, e mancavano ancora i calci di rigore. A far dono ai sudamericani di una semifinale attesa 40 anni fu El Loco Abreu, che a battere giunse per ultimo e con una lentezza irritante già per la gente davanti alla tv, figuriamoci per il portiere ghanese. Sistemato infine il pallone sul gesso, il mancino uruguagio calciò a cucchiaio – non per nulla lo chiamavano Loco – e fu in quel modo coraggioso e pìcaro che segnò il gol più importante della sua carriera, costringendo tutto un continente a rimandare di nuovo i sogni di gloria.
Questa è la diciannovesima puntata di una serie dedicata alla storia della Coppa del mondo di calcio che ci accompagnerà fino a novembre, nell’immediata vigilia di Qatar 2022.