La seconda edizione della Coppa del Mondo di calcio, nel 1934, fu voluta e accomodata da Mussolini in persona
All’inizio degli anni 30, in piena dittatura, Mussolini sa bene che lo sport può facilmente essere sfruttato a fini propagandistici. E così – se in casa scarseggiano – i campioni va a prenderseli all’estero e li trasforma in eroi fascisti emblemi di una rinnovata virilità romana, e fa niente se poi lui stesso ama farsi fotografare in calzamaglia bianca. È il caso del pugile Primo Carnera che – senza scarpe e costretto a mendicare – lasciò il Friuli natio quando aveva solo 15 anni per raggiungere parenti che a Le Mans erano riusciti almeno a guadagnarsi il pane quotidiano. Purtroppo però il posto da aiuto-carpentiere che gli zii riuscirono a trovargli gli fruttava un salario nemmeno sufficiente a sfamarlo, dato che madre natura lo aveva dotato di un telaio di 2 metri per 130 chili. E così, quando un circo passò vicino a casa, chiese e ottenne di essere ingaggiato. Divenne un fenomeno da baraccone, sfidando nella lotta figuranti conniventi e piegando barre di stagno dipinto. Fu con grande fatica che un manager dall’occhio lungo, dopo averlo convinto ad abbandonare carrozzoni e sterco di cavallo, riuscì a farne un boxeur in grado di combattere a Parigi, Chicago e New York. A quel punto Mussolini si accorse di Carnera e lo reimportò per farne un atleta di regime.
Allo stesso modo il Duce dispose che si agisse nel calcio, incentivando il reclutamento in Sudamerica dei numerosi talenti dal cognome italiano che facevano le fortune di Uruguay, Argentina e Brasile: ragazzi che d’italiano non avevano più nulla, se non appunto il cognome dei nonni che, in deficit di proteine, avevano avuto il coraggio di cambiare emisfero. Cresciuti a bistecche invece che a polenta, gli oriundi erano atleti molto più performanti dei loro cugini rimasti nel Vecchio continente a dribblare guerre e carestie. E in campo ovviamente dominavano. Già sul finire degli anni 20, dunque, lungo le sponde del Paranà si scatenò una razzia che condusse in Italia campioni del calibro di Libonatti, Sallustro e Cesarini (quello della famosa Zona), subito ritenuti arruolabili anche per la maglia Azzurra, già vestita per la verità nel 1914 contro la Svizzera dall’argentino Eugenio Mosso, l’archetipo di tutti gli oriundi del Belpaese. L’esperimento riuscì e negli anni successivi – che conducevano alla Coppa del Mondo voluta "fortissimamente" da Mussolini – la Nazionale italiana schierò almeno una dozzina di oriundi, fra cui il grande Ernesto Mascheroni, iridato nel 30 con l’Uruguay. E al termine del quadriennio, nella rosa iscritta al Mondiale casalingo figuravano il brasiliano Guarisi e gli argentini Guaita, Orsi, Demarìa e Monti. Tutta gente che, con Meazza, Ferrari e Schiavio, fu determinante nella conquista – faticosa e per nulla limpida – del primo titolo iridato degli Azzurri.
Nei quarti di finale, in effetti, gli uomini guidati da Vittorio Pozzo ebbero la meglio della Spagna soltanto dopo la ripetizione della sfida – come usava allora in caso di pareggio al 120’ – e probabilmente grazie al fatto che il rematch fu giocato dagli iberici senza il leggendario portiere Zamora, messo knockout nella prima partita da Meazza. Il centravanti dell’Inter – pardon, dell’Ambrosiana, come i nerazzurri dovettero essere ribattezzati in quegli anni di scarsa grazia – ad ogni modo ce l’aveva per vizio: anche in semifinale contro l’Austria infatti neutralizzò per qualche secondo l’estremo difensore avversario Platzer consentendo al gaucho Guaita di segnare l’unico gol dell’incontro. E sofferta per gli italiani fu pure la finalissima: quando al 71’ i cecoslovacchi sbloccarono il risultato con Puc, sugli Azzurri parve cadere una mannaia dal filo taglientissimo. Mussolini non avrebbe tollerato il fallimento in un torneo che aveva apparecchiato personalmente a maggior gloria del fascismo, e certo la sua vendetta sarebbe caduta pesantemente sui colpevoli. A salvare capra e cavoli ci pensarono l’argentino Orsi (81’) e il bolognese Schiavio, che al supplementare siglò il 2-1.
Il solo match giocato e vinto in scioltezza dall’Italia fu il primo in cartellone, negli Ottavi contro gli Stati Uniti. L’incontro, terminato 7-1, non ebbe storia, e i motivi per cui lo ricordiamo in questa rubrica, a ben vedere, hanno poco a che fare col calcio. Ma proprio lì sta il bello. In cerca di fortuna, si sa, gli italiani nell’Ottocento non erano migrati soltanto in Sudamerica: in modo altrettanto massiccio, se non addirittura maggiore, avevano infatti invaso pure le lande settentrionali del Nuovo mondo, dove secondo tradizione avevano figliato in abbondanza. E fu dunque quasi inevitabile che nella squadra abbinata ai padroni di casa da un sorteggio pilotatissimo ci fossero almeno un paio di gocce di sangue italico. Parliamo di Joe Martinelli, nemmeno sceso in campo in quella gara d’apertura il 27 maggio del ’34, e di Aldo Teo Donelli – detto Buff – che invece giocò e addirittura firmò il punto della bandiera della compagine yankee. Del resto, di quella squadra era fra i meno brocchi: tre giorni prima, nell’ultimo spareggio previsto per definire il tabellone delle 16 partecipanti al Mondiale, aveva segnato addirittura un poker nel 4-2 con cui gli Usa avevano rimandato a casa il Messico. Donelli era dunque un buon centravanti, ma nel football americano era ancora più bravo: considerava infatti il soccer soltanto un passatempo divertente, e fin lì con la palla rotonda aveva giocato al massimo una ventina di gare ufficiali, nelle molte leghe nordamericane che nascevano e fallivano nel giro di due mesi.
In quella primavera del 1934, Buff Donelli – nato nella gelida Pennsylvania 27 anni prima – di professione era infatti assistente allenatore della squadra di football della Duquesne University di Pittsburgh, di cui pochi anni prima era stato la stella come halfback e punter. Quelle due partite giocate a Roma, ci crediate o meno, furono le sue uniche apparizioni nella Nazionale statunitense di calcio. Cinque gol in due presenze: non stupisce che nel 1954 l’abbiano inserito nella Us National Soccer Hall of Fame. La sua vita infatti era il football americano, che sapeva insegnare molto bene. Quando i Pittsburgh Steelers (franchigia di primordine) vollero ingaggiarlo, pose come condizione che potesse continuare ad allenare in parallelo i ragazzi dell’Università, di cui era intanto divenuto headcoach. Per breve tempo gli fu concesso: la mattina, quando gli studenti avevano lezione, si dedicava ai professionisti, mentre nel pomeriggio seguiva i ragazzi. Costretto infine a scegliere uno dei due impieghi, optò per il college, perdendoci probabilmente pure un bel po’ di dollari. Ebbe comunque una nuova occasione in Nfl coi Cleveland Rams – oggi a Los Angeles – che diresse per una sola stagione: la guerra andava avanti da qualche anno e Donelli, benché quasi quarantenne, voleva dare il suo contributo e andò ad arruolarsi. Poco importa se i suoi Rams, un paio di mesi dopo, vinsero il titolo nazionale.
Smesso il grigioverde, tornò a formare i ragazzi dirigendo per 10 anni la squadra della Boston University e addirittura per 11 stagioni la prestigiosa Columbia, che condusse all’unico Ivy League Championship mai conquistato da quell’ateneo nel football americano. Aldo Buff Donelli, a suo modo eroe dei Mondiali mussoliniani del 1934, morì a 87 anni al caldo sole della Florida, come tanti pensionati con due soldi da parte. Era l’agosto del 1994, e fece appena in tempo a vedere in Tv la Coppa del Mondo di soccer giocata proprio negli Stati Uniti.
Questa è la seconda puntata di una serie dedicata alla storia della Coppa del Mondo di calcio che ci accompagnerà fino a novembre, nell’immediata vigilia di Qatar 2022.